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L'allarme di Elena Granata: "Lo studio da casa uccide l'università"

La docente del Politecnico di Milano ha raccontato su Twitter la storia del ragazzo che ha venduto i giocattoli per comprare il pc

Pietro De Leo
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«Ho ricevuto subito una grande risposta, devo dire una bella sorpresa». La professoressa Elena Granata, Politecnico di Milano, racconta entusiasta la reazione al suo tweet in cui raccontava la storia del suo piccolo vicino di casa, che ha deciso di mettere in vendita i suoi giocattoli per comprarsi il pc per seguire le lezioni di scuola a distanza. «In tanti si sono subito messi a disposizione, vogliono essere utili e velocemente. Questa è l'Italia che mi piace, pragmatica e generosa». Una storia da libro cuore. «Sì, quasi (ride al telefono n.d.r). Mi ha colpito molto l'intraprendenza di questo ragazzino, che si è messo in discussione per raggiungere il suo obiettivo. È segno che questa generazione sa ciò che la aspetta, contrariamente a quanto possiamo pensare. Ho parlato con i genitori, e mi hanno detto che, pur sapendo che vendendo qualche giocattolo non avrebbe mai raggiunto la cifra, comunque gli hanno consentito di realizzare questa sua iniziativa, affinché dia il giusto valore alle cose». È una famiglia povera? «No. Ceto medio milanese. Ma sa, questa cosa della didattica a distanza ha cambiato le dinamiche non solo a famiglie indigenti. Magari il computer lo hai in ufficio e non a casa. E può capitare che a casa ne hai soltanto uno, che non può bastare se fai smart working, e più figli hai più sei in difficoltà e devi arrangiarti con i cellulari. Attorno alla didattica a distanza si sono date per scontate troppe cose, sia per quanto riguarda la dotazione di pc o tablet, sia per quanto riguarda la stabilità delle connessioni. Questo, peraltro, è un tema esistente non solo per chi va a scuola, ma anche per chi va all'università». Per approfondire leggi anche: Dal governo nessuna risposta sulla scuola Lei com'ha vissuto questo momento di didattica a distanza? «Io faccio lezione a circa 50 studenti a semestre. Ho notato che una parte di loro, circa un 20%, per problemi di connessione si collega dal cellulare, e si comprenderà che ciò ha un impatto anche cognitivo. In questo modo si impoverisce anche la didattica. Un mio studente mi ha detto che un altro semestre così non lo avrebbe retto». Paradosso. Nella società della tecnologia mai avremmo pensato di trovarci «scoperti» su questo fronte nel momento del maggior bisogno. «E invece è così. Il digital divide non è soltanto riferito alle dotazioni, ma anche alle connessioni. La lezione in classe azzera le disuguaglianze, perché comunque, in presenza, tutti hanno la stessa opportunità. A distanza si pagano conseguenze per zone mal collegate, dove la connessione cade, oppure è più lenta. E questo non riguarda, che so, aree come l'entroterra o l'Appennino, dove è notorio che ci siano questi problemi. Ma, parlo per il territorio a me più vicino, anche alcune zone cittadine o della Brianza. Chiaramente, i più piccoli sono destinati a soffrire maggiormente per questa situazione». La didattica a distanza come cambia il rapporto tra docente e studente? «Sono sempre portata a vedere le cose in positivo. Personalmente ho notato una cosa, che quegli studenti più timidi, più riservati, che in aula facevano più fatica ad esprimersi, hanno tratto giovamento dall'avere uno schermo avanti a loro». E sul versante docenti? «Non è stato facile per tutti dover impostare un modo di fare lezione tutto nuovo. Forse maggiore difficoltà l'hanno avuta i docenti non più giovani che, com'è noto, hanno una forte presenza nell'università italiana. Comunque, c'è chi ha dimostrato una grande padronanza del mezzo; chi ha pensato di far lezione allo stesso modo di prima, ma chiaramente non è quella la strada. E poi ci sono delle università che si sono organizzate con le lezioni da scaricare, la cosa più sbagliata, perché viene meno l'interazione che è fondamentale. Per quanto mi riguarda, l'università ha messo a disposizione un pool di tecnici che ci seguono in questo percorso». E com'è gestire un esame da remoto? «Al momento ancora non ho fatto sessioni. Ma fin da subito ho deciso, visto lo stato di cose, che valutazione e apprendimento sarebbero andati di pari passo, tenendo conto di partecipazione, del coinvolgimento, dell'autoproduzione di materiali da casa dei ragazzi. In modo che l'esame sia solo il momento conclusivo». E per il prossimo anno accademico? «È uno scenario complicato. Sappiamo che a Cambridge pare non si farà lezione in presenza per tutto il 2021. Noi, al momento, non abbiamo nessuna indicazione ma è possibile che si vada avanti fino a dicembre di quest'anno. Ed è una situazione complicata, penso a quei fuorisede che magari devono trasferirsi a Milano, con tutti i costi che ciò comporta. Secondo me occorre optare per un modello ibrido. Una parte in aula, chi magari abita vicino e ha facilità ad arrivare. Gli altri da remoto. Ma a tenere tutti a casa non sono favorevole».

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