parla il virologo
Emergenza coronavirus, Lopalco: l'epidemia in Italia durerà più della Cina
L’Italia nell’emergenza da coronavirus. E poi quei numeri impressionanti della Lombardia, per numero di contagi e di morti. Cosa sta succedendo in quella regione? Come contenere il contagio al centrosud? E quando gli italiani potranno vedere la fine di questo dramma nazionale? Lo abbiamo chiesto a Pier Luigi Lopalco, professore di Igiene all’Università di Pisa e responsabile del centro emergenze epidemiologiche della regione Puglia. “L’andamento in Lombardia - spiega Lopalco - viene spiegato con quella che noi chiamiamo la curva di crescita esponenziale in una epidemia che è partita prima di tutte le altre e soprattutto è partita sotto traccia e nelle prime fasi non è stata messa in evidenza perché all’inizio molti casi sono stati confusi con un’influenza o con altre malattie respiratorie e questo, sotto traccia, ha dato il tempo al virus di diffondersi in quella popolazione”. Il numero dei morti in Lombardia è impressionante. In Germania, per citarle un dato, ad ieri pomeriggio, su 21.726 casi i morti erano 70. Perché? “In Lombardia molti dei focolai si sono sviluppati intorno agli ospedali. A partire da quello di Codogno. Questo sappiamo che è un fattore determinante, per quanto riguarda il coronavirus (ed era già successo con la Sars), perché gli ospedali rappresentano gli hub di diffusione, sono dei centri di diffusione. E soprattutto intorno agli ospedali orbita una popolazione molto debole. Quindi sono persone che hanno altre patologie e persone anziane. Ecco che questo giustifica, in parte, l’altissimo livello di letalità che si sta osservando in Lombardia. Poi se vuole magari anche un’altra spiegazione, sull’aspetto della alta letalità che sta sorprendendo tutti, si potrebbero avere altri due argomenti”. Quali? “Il primo è che il sistema lombardo di assistenza si è saturato. Il fatto che stiano cercando di aprire nuovi posti, la Fiera, il San Raffaele, significa che i posti in rianimazione si sono saturati. Capisce bene che davanti a questo problema la letalità aumenta. Perché? Perché questo è un virus che causa la polmonite. La polmonite, se viene curata adeguatamente, può essere superata, soprattutto se non ci sono altre patologie concomitanti, ma se ad un certo punto i casi sono tanti ed i soggetti più deboli non possono avere una sufficiente permanenza in terapia intensiva lei capisce che avremo i soggetti più deboli che magari non ce la faranno a superare la patologia. Altro punto, che mostra una letalità così alta, è un fatto matematico, legato al sistema di sorveglianza della malattia: quando noi abbiamo una epidemia con una intensità così forte, ad un certo punto i casi meno gravi, asintomatici, che non necessitano di assistenza sanitaria non vengono neppure riportati perché il sistema è un sistema che si è saturato, quindi il denominatore si stringe, e si stringe sui casi più severi. E troviamo un numero maggiore di morti. Ecco perché tutto questo insieme di fattori fa sì che la Lombardia in questo momento sembra che abbia una letalità estremamente alta”. Politiche nazionali di contenimento: mi sembra di aver capito che ci sono due modelli, quello cinese e quello sudcoreano. Noi siamo troppo in ritardo per seguire il modello sudcoreano, ovvero per fare tanti tamponi agli italiani? “Quando noi leggiamo modello sudcoreano, lo semplifichiamo con la frase facciamo tanti tamponi. Attenzione, non è così. Il modello sudcoreano sono tanti tamponi più una serie di cose, questo e quest’altro. La strategia di contenimento e di rallentamento di una epidemia è fatta da tanti fattori, tra cui c’è anche una strategia di identificazione dei casi sospetti. Tutte le epidemie, in tutto il mondo, se sono affrontate seriamente si affrontano con tre step. Identificazione dei casi, isolamento dei casi e trattamento adeguato dei malati. La strategia che stiamo attuando in Italia è comunque quella di identificare i casi sospetti, perché comunque noi di tamponi ne stiamo facendo tantissimi, c’è la Corea del Sud e poi c’è l’Italia. Stiamo comunque cercando di identificare tutti i casi sospetti, che vuol dire casi di qualcuno che ha qualche sintomo. I casi asintomatici noi non li stiamo inseguendo con un tampone”. Altro problema italiano: come fermare i contagi tra i sanitari e il personale medico? “Negli operatori sanitari, dove il sospetto è alto anche in assenza di sintomi, in molte regioni - laddove non c’è una epidemia esplosiva come quella della Lombardia - facciamo il tampone. Anche noi in Puglia se abbiamo un operatore sanitario che è il contatto di un caso positivo lo mandiamo subito a casa. Perché ancora ce lo possiamo permettere. Appena c’è il sospetto che un operatore sanitario si sia contagiato lo mandiamo a casa e poi prima di riammetterlo in servizio, anche se è asintomatico, il tampone glielo facciamo”. Ma i contagi tra i sanitari in Italia restano alti. Perché? “Perché purtroppo l’epidemia è molto subdola quindi che succede? In ospedale entra una persona con una frattura di femore, viene trattato per la frattura ma intanto quello lì era positivo al coronavirus e infetta l’infermiere che lo ha accudito. Per cui noi abbiamo il caso dell’infermiere. A questo punto tutti gli altri sanitari che hanno avuto contatti con quell’infermiere li mandiamo a casa per evitare che poi si crei l’epidemia ospedaliera”. Questo serve a contenere l’epidemia al sud? “Esatto. Al sud noi adesso ci possiamo permettere questo livello di attenzione perché ancora non abbiamo lo tsunami dei casi. È una onda in crescita ma ancora abbastanza gestibile. Stiamo cercando di andare con gli estintori, laddove c’è un caso tutti i contatti li mandiamo a casa e sgomberiamo il reparto. E stiamo facendo un lavoro di riorganizzazione della rete assistenziale. E questo proprio per evitare i contagi ospedalieri. Perché le epidemie ospedaliere sono le più pericolose”. Fate anche meno ospedalizzazione dei malati di coronavirus? “Ovviamente i casi non gravi non vanno proprio in ospedale ed al momento noi stiamo pure attivando in Puglia quelli che sono i cosiddetti ospedali pre-Covid e post-Covid, ospedali dove vanno gli asintomatici che non hanno bisogno di grossa assistenza. Poi c’è l’ospedale Covid dove vanno l’infettivologo, il pneumologo e l’anestesista, con i letti di rianimazione. Spieghi meglio il post-Covid. “Ci sono i padiglioni per i convalescenti. Perché purtroppo il problema è che quando finisce l’ondata, man mano che la gente guarisce, non la puoi mandare a casa perché rimangono positivi per un sacco di giorni. Finché non si negativizzano, anche se son persone che stanno bene, non le puoi mandare a casa perché contagerebbero gli altri. E quindi abbiamo pensato a queste strutture post-Covid, in un ridisegno della rete ospedaliera”. Quando durerà in Italia la battaglia e l’emergenza da coronavirus? “Noi l’unica evidenza che abbiamo è quello che è successo in Cina, a Wuhan e nell’Hubei, dove l’epidemia è durata sei settimane però con quel livello di contrasto, un livello militare. Mi piacerebbe essere onesto con i cittadini. Questa non è una roba che dura poche settimane. E soprattutto: nel momento in cui passerà l’ondata non dobbiamo illuderci che ci togliamo la mascherina, usciamo di casa e andiamo in discoteca il giorno dopo. Non sarà così. Il ritorno alla normalità non potrà essere improvviso perché questo virus sta nella popolazione umana e ci resta, non se ne andrà via”. Un’ultima domanda: ma ci possiamo fidare dei dati cinesi? “Io direi di sì”.