la spoon river delle divise
I 3.534 eroi caduti che per lo Stato hanno dato la vita
Dal primo gennaio di quest’anno ad oggi sei carabinieri, un poliziotto e tre vigili del fuoco sono morti in servizio. In silenzio, dentro a una divisa macchiata dal sangue e dal sudore, alla fine di una vita dedicata al prossimo. L’Arma ha perso due uomini a Napoli e uno a Rovigo mentre rilevavano incidenti stradali, altri due a Cuneo nel corso di una traduzione e un altro a Milano durante una esercitazione. Seicentoquarantacinque, invece, sono rimasti feriti, soprattutto nel Lazio, in Lombardia e in Emilia Romagna. La Polizia ha perso poi Giovanni Politi, il sovrintendente campo morto a Firenze il 25 febbraio scorso nell’incendio divampato negli uffici della caserma Fadini. Dario Ambiamonte, Giorgio Grammatico e Pinuccio La Vigna sono i vigili del fuoco che se ne sono andati da eroi: i primi due il 20 marzo a Catania nell’esplosione di una palazzina per una fuga di gas. Avevano 40 anni uno 37 l’altro. L’ultimo a Milano il 7 aprile mentre spegneva un incendio di un capannone in una azienda di detersivi. Aveva 49 anni ed era volontario. Professionisti, uomini di cuore che più di tutti onorano il tricolore e in quello fanno l’ultimo viaggio. Il ministero dell’Interno, nella graduatoria pubblicata online, li chiama “vittime del dovere”. Che se ne vanno mentre tentavano di salvare qualcun altro. Li vediamo correre a sirene spiegate, facendosi largo nel traffico della città, sorridere alla gente in strada o inseguire il bandito di turno che si è guadagnato la giornata. Indossano divise ed equipaggiamenti spesso non all’altezza dei compiti, eppure non si tirano mai indietro. Incassano coltellate e pallottole, tentando di destreggiare i colpi di folli e criminali per non doversi difendere con la stessa arma, si buttano nel fuoco, si infilano in cunicoli stretti per riportare alla luce chi li ha invocati con un filo di voce. Li abbiamo visti nel cratere del sisma che ha distrutto il centro Italia. Impolverati, feriti, stanchi da turni che si sono accavallati. Affamati, assonnati, doloranti e mai fermi. Amatrice e Arquata del Tronto li ricordano bene quegli eroi senza mantello, quelli che gli hanno restituito la vita e che invece hanno tirato pugni alle macerie spesso impietose nonostante i sacrifici. I reduci di quelle terre martoriate incrociavano i loro sguardi mentre si incamminavano spaesati in cerca di qualcosa che potesse esser strappato via dalle case che non esistevano più. I poliziotti e i carabinieri sorvegliavano gli scenari della devastazione a caccia di sciacalli, portavano conforto a chi non aveva più nulla e intanto i vigili del fuoco scavavano e scavavano ancora, senza conoscere riposo. Li abbiamo ritrovati a Bologna, a portar via quanta più gente possibile da quell’inferno di fiamme. Con le magliette della divisa che si scioglievano addosso e il fumo che usciva dalla pelle bruciata. Al lavoro, il giorno dopo, bendati, acciaccati forse, ma fieri di un lavoro che hanno scelto per amore. Rinunciando a stipendi esorbitanti, alla tranquillità, alla serenità. E sminuendo gli elogi di quanti li chiamano “eroi”. Facciamo il nostro lavoro, dicono sempre. E troppo poco vengono ringraziati. I vigili del fuoco contano centinaia di medaglie, sui social network. Ma a Rigopiano, mentre scavano nella neve per tirar fuori gli ospiti dell’hotel in una lotta col tempo, mangiavano pasta e fagioli alle 4 di notte, merendine e succhi di frutta a pranzo, utilizzando come bagno il bosco alle spalle della struttura sepolta dalla slavina. Non hanno divise performanti come i supereroi dei fumetti né macchine potentissime pronti a farli arrivare in tempi record sui posti: combattono prima di tutto contro le risorse che sono quelle che sono, in un Paese che non naviga nel benessere, e non si tirano mai indietro nemmeno quando la volante si ferma per un guasto e non ce ne sono altre pronte a sostituire quella in strada. “Sono venuto mezz’ora prima oggi per controllare se le manichette dei mezzi erano a posto dopo la giornata di ieri” aveva detto il vigile del fuoco di Bologna, Luca Salvatori, all’indomani dell’esplosione e del turno infinito. “Non chiamateci eroi”, si raccomandano. Allora li chiameremo campioni.