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Blue Whale Challenge, la Cassazione assolve il gioco dell'orrore

"Nessun reato in caso di lesioni lievi"

Valentina Pelliccia
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di Valentina Pelliccia

La Suprema Corte di Cassazione si è espressa, per la prima volta in Italia, a fine dicembre 2017 su un caso legato al "Blue Whale Challenge", il pericoloso e nefasto social game arrivato ultimamente anche da noi, con un verdetto di assoluzione dal reato di istigazione al suicidio per il "curatore" della sfida. Non sussiste reato di istigazione al suicidio se manca l’attuazione di questo o di procurate lesioni personali gravi o gravissime. Questa la determinazione della quinta sezione penale di Roma della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 57503/2017 del 24 dicembre 2017 su un caso di adescamento e di istigazione al suicidio da parte di un uomo di 37 anni, di nazionalità indiana, nei confronti di una minore nell’ambito della pratica del “Blue Whale Challenge”. Questa sfida virtuale tristemente nota in Italia con il nome di “Balena blu” nata in Russia e diffusasi anche da noi in rete dallo scorso febbraio, prevede che, dopo estenuanti prove di sottomissione ai comandi di un "curatore", la vittima sia spinta a togliersi la vita. In questo caso, il Tribunale di Roma (luogo di residenza della ragazza), aveva confermato il sequestro probatorio di cellulare e materiale informatico all’uomo che, nell’esecuzione di tale “gioco”, aveva mandato ad una minorenne vari messaggi telefonici e scritti on-line tra cui uno in cui le intimava: “manda audio in cui dici che sei mia schiava e della vita non ti importa niente e me la consegni”. Invece la disposizione della Corte di Cassazione afferma che: “Si punisce l’istigazione al suicidio a condizione che la stessa venga accolta e il suicidio si verifichi o quantomeno il suicida, fallendo nel suo intento, si procuri una lesione grave o gravissima.” Il legislatore esclude, quindi, non solo la rilevanza penale dell’istigazione al suicidio in quanto tale, ma anche dell’istigazione  che, accolta dalla ragazza non aveva portato a lesioni gravi. I giudici del caso descritto si sono limitati ad inquadrare la condotta e condannare l’uomo solo nell’ambito di adescamento di minorenni. Siamo quindi ancora fermi all’art. 580 del Codice penale del 1930, il Codice Rocco che aveva sancito la perseguibilità dell’istigazione al suicidio solo nel caso di attuazione dell’atto. Non è ancora tempo di modificare la legislazione in materia?  

 

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