il Sopravvissuto
Maurizio Lupini: "Li ho visti morire a colpi di mitra"
Caro direttore, ripercorrere quegli eventi mi fa sanguinare una ferita che non riesce a rimarginarsi. Sono passati 40 anni ma ho chiari, nitidi, ogni istante di quel maledetto 7 gennaio 1978. Era una fredda giornata e coperta da nuvole come presagire un qualcosa di negativo. Già dal mattino ci furono delle schermaglie con l’opposta fazione di sinistra, durante l’affissione di manifesti per il concerto degli Amici del Vento che sarebbe dovuto avvenire il giorno successivo. Scaramucce come era di prassi. Poi si va a pranzare e subito dopo, nel primo pomeriggio con Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta decidemmo di andare nella sede di Acca Larentia dopo essere arrivati troppo tardi ad un appuntamento con delle ragazze. Qui incontrammo altri di noi. Era in programma un volantinaggio in Prati e siccome non avevamo abbastanza mezzi di locomozione alcuni andarono ed io, con Franco, Francesco ed Enzo, rimanemmo in sezione. Fino a quando arriva anche Pino. Eravamo in cinque. Io e Bigonzetti decidemmo di andare al vicino laboratorio di pasticceria a prendere dei cornetti ed al ritorno vidi una persona muoversi con fare sospettoso ma non pensai che di lì a poco sarebbe venuto l'inferno. Pino, l'ultimo arrivato, aveva la macchina e gli chiedemmo di prenderla per raggiungere gli altri in Prati. Rispose di sì, così decidemmo di avviarci in Prati. Spensi la luce dei locali della sezione e al momento di richiuderla arrivò un primo colpo che prese in pieno volto Bigonzetti, uccidendolo sul colpo. Poi una furia di colpi a raffica di mitraglietta, successivi, tanti. Io caddi all'interno spinto da uno dei ragazzi riusciii a chiudere la porta in faccia ai terroristi mentre Ciavatta fuggiva sulle scale che portano a via delle Cave. Venne colpito anche lui, alla schiena. Dopo alcuni minuti riaccesi la luce all'interno della sede e scorgemmo che entrava sangue da sotto la porta blindata. Passato qualche secondo, con cautela, riaprimmo la porta. Bigonzetti giaceva senza vita in terra. Provai a trasportarlo verso una macchina per soccorrerlo. Era tutto così incredibile per esser vero. Io, sporco di sangue, venni chiamato da una signora del palazzo soprastante. "Corra, c’è un altro ragazzo sulle scale". Era Francesco Ciavatta. Corsi a soccorrerlo che era ancora vivo. Mi sussurra che gli bruciava tutto, gli bruciava dentro. Resterà oltre mezz’ora in attesa di un’ambulanza e poi spirerà all'ospedale San Giovanni nonostante un disperato tentativo di salvarlo da parte del personale sanitario. Successivamente mi portarono in questura per tentar di ricostruire la dinamica fino alle sei del mattino allorché, esausto, chiesi di essere riaccompagnato a casa. Nel mentre finivo di riferire i fatti alla polizia arrivò la voce di un altro ragazzo, Stefano Recchioni, gravemente ferito. Il giorno successivo tornai a via Acca Larentia e qui seppi della dinamica, ancor oggi poco chiara, che parlava di un capitano dei carabinieri, un certo Sivori, che aveva sparato a Recchioni durante gli scontri - successivi alla strage - scoppiati con le forze dell’ordine. Chi diceva avesse sparato con la pistola d’ordinanza, chi con un’altra arma. Non essendo stato presente all’accaduto non posso dirvi se fu effettivamente lui a sparare oppure no. Le sentenze lo hanno scagionato. Dopo quarant’anni per me nulla è cambiato. Resta il ricordo di quelle giovani vite spezzate e il rammarico per indagini - a dir poco lacunose - che non hanno permesso di dare un volto a quegli assassini tutt’ora in libertà.