VERGOGNA DI STATO
Il generale Mori: "Devo veder morire i miei persecutori"
«Io mi devo curare, e curare bene, perché devo vedere morire questa gente». È lapidario il generale Mario Mori, che conquista agli applausi al Capranichetta di Roma, incalzato dalle domande del direttore del Tempo Gian Marco Chiocci. E «questa gente» non si fatica troppo a capire di chi si tratti: sono i persecutori, i professionisti dell’antimafia, gli alfieri dei processi spettacolo che hanno fatto per anni di un Servitore dello Stato carne da complotto, gettando per un uomo di legalità la coperta dell’accusa più infamante, quello della collusione con la criminalità organizzata. Ora, quando gran parte dei procedimenti a suo carico si affianca nell’assoluzione (assolto in quello sulla presunta ritardata perquisizione del covo di Riina, assolto per il presunto favoreggiamento a Provenzano, rimane solo il processo sulla trattativa Stato-Mafia), ecco un docu-film, presentato ieri in anteprima con la collaborazione del Tempo, realizzato da Ambrogio Crespi, scritto dal colonnello Giuseppe de Donno (che fu collaboratore del generale) e con l’ex segretario dei Radicali Giovanni Negri a svolgere il ruolo dell’intervistatore: «Mario Mori. Un’Italia a testa alta». Un’ora in cui, con la voce narrante di un giovane che attraverso la figura del generale fa conoscenza della storia, assieme alla carriera di Mori vengono scanditi i momenti più salienti dei nostri ultimi quarant’anni. Dall’esplosione dell’eversione politica (che trovò il suo apice con il rapimento all’uccisione di Aldo Moro) fino alla lotta alla mafia, l’impegno al fianco di Falcone e Borsellino e l’ondata del giustizialismo di ritorno. Sì, perché anche questo è stato un dramma del nostro Paese. E Mori c’è finito dentro. Lo racconta, più o meno così: «quando seppi che ero indagato, tornai a casa la sera e sul subito non dissi nulla a mia moglie e i miei figli. Poi, verso la fine della cena, fu lei a chiedermi spiegazioni, perché l’aveva sentito in tv. Io le risposi: dobbiamo affrontare tutto con la serenità di chi è dalla parte del giusto. Queste cose si affrontano con il cervello, anche se poi quel che provi dentro è del tutto personale». Queste frasi concludono il documentario, che si avvale delle testimonianze di amici e collaboratori (da De Donno al giudice Capaldo) e nemici di un tempo (come l’ex Br Valerio Morucci). E dopo la standing ovation inizia il colloquio con Chiocci che è una radiografia inedita su questi decenni. Le Br? «Avessero continuato a colpire obiettivi di medio livello, avrebbero sgretolato lo Stato. C’è stato un momento in cui le istituzioni erano disorientate, e molti magistrati non andavano neanche in Procura per il timore di attentati. Poi hanno colpito troppo in alto, Aldo Moro. E quello ha segnato la loro fine». Non mancano parole per i suoi collaboratori. A partire dal Maresciallo Antonino Lombardo, militare che fu fondamentale per la cattura di Totò Riina ma poi si uccise dopo una feroce campagna mediatica che lo dipinse come colluso alle cosche . «Ci furono delle concause che portarono al gesto estremo di Lombardo. Prima, le accuse in tv da parte di Leoluca Orlando nella trasmissione di Michele Santoro. Poi, alcune voci nate in Procura, non si sa come, che lo vedevano contiguo ai clan. Terza cosa, mentre era a Milano la moglie lo avvisò che era sparito il cane. E lui capì che quello era un segnale della mafia». Questo stillicidio, lo portò alla decisione fatale. Infine il Capitano Ultimo, anche lui afflitto da una nutrita serie di guai giudiziari: «Lo conosco bene, e di certo non è né un delinquente, né un traditore dello Stato». La parola di prospettiva è per lo scenario della mafia: «La mafia di Riina è destinata a finire, perché la società è cambiata - spiega Mori - però il guaio è che la cultura mafiosa si è espansa, e non è più solo in Sicilia».