PROCESSI E POLEMICHE
Il film che ridà l’onore al generale Mori
Mentre al processo sulla fantomatica "trattativa" Stato-mafia va in scena una requisitoria che descrive come l’artefice di tutti i mali, ieri alle 16, alla Sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale (Piazza di Monte Citorio 131), c'è stata la proiezione della prima nazionale del docufilm di Ambrogio Crespi «Generale Mori. Un’Italia a testa alta», prodotto da Index Production e scritto dal colonnello Giuseppe De Donno, a lungo collaboratore di Mori, che si è avvalso della collaborazione di Giovanni Negri, presidente de "La Marianna" e già segretario del Partito Radicale. Un appuntamento organizzato in collaborazione con Il Tempo e che ha visto la partecipazione di centinaia di persone, fra cui lo stesso Mori, il regista Crespi, il colonnello De Donno e il nostro direttore Gian Marco Chiocci. Si tratta di un docufilm di ottima fattura, che ripercorre la carriera di Mori, i suoi successi e i suoi momenti bui, superati anche grazie a una rara tenacia. Dalla morte del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa (che ammirava Mori) al sequestro e l’uccisione di Aldo Moro; dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, fino alla cattura di Totò Riina e alla lotta contro il terrorismo (anche se Mori, lo si potrà vedere nel docufilm, parla sempre del rispetto, ricambiato, dovuto ai terroristi), la camorra e la ’ndrangheta. Una proiezione, dunque, che smentisce seccamente quanto sostenuto da alcuni magistrati sul conto di Mori (ci sono anche gli elogi all’ex Generale da parte dei procuratori con cui ha lavorato). Perché Mori, che i suoi uomini chiamavano "Comandante Unico", non è "l’uomo nero" che ha protetto Riina e Bernardo Provenzano, non è l’ufficiale che ha "trattato" con la mafia, non è il militare che ha "indirizzato" gli obiettivi dei corleonesi, come si va sostenendo in questo giorni nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo. Invece di premiarlo, Mori, di elogiarlo, di imparare da lui, lo hanno massacrato. Lo hanno portato sul banco degli imputa- ti come colui che, in nome della fantomatica "trattativa", avrebbe consentito ai sodali di Riina di svuotare il covo del capomafia dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio 1993; eppure lo hanno assolto (la procura di Palermo non presentò nemmeno ricorso); lo hanno processato, di nuovo, come l’uomo che, sempre in nome della mai provata "trattativa", avrebbe protetto la latitanza di Provenzano, rimanendo inerte di fronte alla possibilità concreta di catturarlo; e anche in questo caso lo hanno assolto in primo grado, appello e Cassazione; lo stanno processando ancora, dopo tutte le assoluzioni, come l’autore materiale del presunto patto fra Co- sa nostra e pezzi delle Istituzioni, arrivando a dire (lo ha fatto il pm Di Matteo qualche giorno fa) che Mori avrebbe persino "confessato" di aver portato avanti una "trattativa" con don Vito Ciancimino. Eppure, sono state le stesse sentenze ad escluderlo, dando a quella parola, "trattativa", utilizzata da Mori di fronte ai giudici, un senso che nulla ha a che fare con quello inteso dai pm palermitani. Lo scopo di Mori, nessuno ormai lo può più negare, se non qualche pm palermitano, era quello di sempre: fare di tutto per consegnare alla giustizia i boss di Cosa nostra, anche attraverso i suoi contatti con Vito Ciancimino. E invece no! All’uomo del docu-film, l’uomo che ha lavorato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’uomo che ha assestato colpi fatali alla mafia e che ha dato la caccia ai terroristi, gli hanno voluto appioppare, ad ogni costo, l’etichetta di "trattativista"; come se fosse un traditore di Stato e non uno degli "eroi" che allo Stato ha dedicato quasi tutta la sua vita. Qualche giorno fa Il Tempo ha chiesto a De Donno chi fosse Mori, e la risposta non poteva che essere questa: «Mori è una persona a cui questo paese deve tanto. Degli anni trascorsi con lui ho un ricordo bellissimo, perché sono stati anni in cui abbiamo lavorato con persone straordinarie come Falcone e Borsellino. Mori è il comandante che tutti vorrebbero avere, per la sua umanità e perché, essendo stato anche lui un operativo, sa che significa lavorare senza poter contare sull’appoggio dei superiori». La verità, dicono, è destinata al trionfo, e finora, nei vari tribunali dove Mori si è difeso, è andata così. Di certo c’è che il docufilm proiettato ieri ci racconta, anche attraverso le sue parole, stimolate dalle domande di Giovanni Negri, l’unico Mori esistente, quello a cui non piace essere definito "eroe" ma che facciamo fatica a non definire tale.