La Cassazione apre alla scarcerazione di Riina: è malato ed ha diritto a una morte dignitosa
Anche "la belva" ha diritto a morire "dignitosamente". Lo stabilisce la Cassazione, che per la prima volta accoglie la richiesta degli avvocati di Totò Riina e apre, di fatto, all'ipotesi di scarcerazione del capo dei capi di Cosa Nostra. "Differimento della pena o, in subordine, detenzione domiciliare" erano le richieste della difesa. Il boss, si legge nella sentenza, versa in condizioni di salute "gravissime": ha 86 anni ed è "affetto da plurime patologie che interessano vari organi vitali, in particolare cuore e reni, con sindrome parkinsoniana in vasculopatia cerebrale cronica". La suprema corte ritiene che le "eccezionali condizioni di pericolosità" debbano essere basate su "precisi argomenti di fatto". Va stabilito insomma quanto Riina possa essere considerato pericoloso in questo stato di salute: "Ferma restando l'altissima pericolosità del detenuto e del suo indiscusso spessore criminale", si legge nella sentenza 27.766, il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Bologna - al quale spetta ora decidere sulla richiesta degli avvocati - "non chiarisce con motivazione adeguata come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico dello stesso". "Totò u curtu" è in carcere dal 1993, dopo essere stato arrestato a Palermo dalla squadra del Capitano Ultimo in seguito a una latitanza durata 23 anni. Al momento è rinchiuso nel carcere di Parma con il 41bis, il regime di carcere duro. Per La Suprema Corte il tribunale di Bologna aveva omesso "di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico". Il giudice di merito dovrà ora verificare se la detenzione comporti una sofferenza e un'afflizione maggiore, tale cioè "da eccedere il livello che deriva dalla legittima esecuzione di una pena". "Anche un detenuto come Totò Riina ha diritto a morire dignitosamente", commenta Peppino Di Lello, ex magistrato del pool antimafia di Palermo e collega strettissimo di Falcone e Borsellino. "Su questo ha ragione la Cassazione nella sua sentenza, ma una sua eventuale scarcerazione non può che avvenire quando effettivamente si sia verificato che le condizioni di salute siano irreversibili". Anche Bernardo Provenzano, ricorda Di Lello, venne scarcerato e potè morire "assistito dai suoi familiari". E tuttavia, non si deve ripetere quello che successe per Licio Gelli, che "venne scarcerato per motivi di salute e anche in quel caso si parlò di possibile e imminente decesso. Invece sappiamo come andò a finire, visto che morì mi pare vent'anni dopo la sua scarcerazione".