I FUNERALI

In migliaia per l'addio a Emanuele Morganti. Il vescovo: "Una ferocia spietata"

Silvia Sfregola

Un filo di voce per ringraziare le migliaia di persone che affollano, mute, il prato davanti alla chiesa di Tecchiena Castello, dove si stavano tenendo i funerali del figlio Emanuele. E' stato ammazzato a vent'anni a calci e pugni per un motivo che nessuno sa ancora qual è. Le ringrazia per ogni lacrima versata, "perché le mie non sarebbero bastate". "Dio non ha chiamato Emanuele perché era cattivo, l'ha solo ricevuto dalla cattiveria degli uomini, Dio l'ha accolto". E con un moto straordinario di umanità Lucia Morganti riprende le parole del vescovo che poco prima aveva invitato a non accanirsi contro il branco, ma a chiedersi piuttosto "come stiamo accompagnando i giovani alla vita": "Salviamo i nostri ragazzi dalle inquietudini", dice tra i pianti e un applauso che squarcia il silenzio. L'omelia toccante e il monito del vescovo È monsignor Lorenzo Loppa a occuparsi dell'omelia. Anche se quella che si è abbattuta su Emanuele è stata una "ferocia disumana, barbara e spietata" con un ragionamento paziente arriva a chiedere a tutti di trasformare "rabbia e vendetta" in "misericordia e responsabilità". "Non dimentichiamoci che siamo cristiani. Gesù - dice - è venuto non per insegnarci ad accettare la morte, ma per amare la vita. C'è un solo modo per far finire la violenza: è non rispondere con la violenza". Di più: "Le esequie di Emanuele ci interpellano sulla nostra capacità di amare. Ecco chi vince la morte: è l'amore". "Nessuno muore mai completamente" si legge su uno degli striscioni che gli amici avevano preparato per salutare Emanuele - Rimarrai sempre vivo dentro di noi!'. "È una piccola frazione - racconta un anziano signore - e si conoscono tutti, qui non è mai successo niente". "Non ci sono parole per quello che è accaduto - aggiunge commossa una donna - chiediamo giustizia". Però nessuno ancora parla ad Alatri e anche Mario Castagnacci, fermato per il pestaggio con il fratellastro Paolo Palmisani, si sfila dalle accuse: "Io non c'entro nulla, ero in piazza ma non ho partecipato", ha detto ieri, dopo quasi cinque ore di interrogatorio con il procuratore di Frosinone, Giuseppe De Falco. Insieme a Palmisani risponde di omicidio volontario aggravato da futili motivi. Le indagini sull'omicidio Intanto proseguono le indagini degli inquirenti, convinti che altre persone abbiano avuto pesanti responsabilità nell'omicidio. L'autopsia ha confermato che il ragazzo è stato colpito con un oggetto contundente e con ferocia tale da fracassargli il cranio e rompergli le vertebre cervicali, ma "l'arma" non è stata ancora individuata. Oltre a Palmisani e Castagnacci, cinque persone restano indagate: quasi tutti addetti alla sicurezza del locale Mirò di Alatri, sequestrato dopo la tragedia, dove Emanuele si era recato con la fidanzata e gli amici la notte in cui è stato picchiato a morte. Tra i tasselli fondamentali che mancano per ricomporre ogni aspetto dell'omicidio c'è il movente: una delle ipotesi è che i due fermati abbiano ridotto in fin di vita il giovane per dare "una prova di forza", per dimostrare, nella piazza centrale di Alatri, la loro violenza criminale. L'altra incognita è legata al nesso tra il pestaggio e il diverbio avuto, non più di quindici minuti prima, da Emanuele al bancone del bar del Mirò dove, nel fare la fila per chiedere un cocktail, il giovane ha discusso con un uomo, ubriaco. I buttafuori hanno cacciato Emanuele dalla discoteca, senza dir nulla all'ubriaco, e poco dopo esser uscito, il ragazzo è stato aggredito una prima volta. Poi è fuggito, forse è stato seguito, e qualche minuto dopo è tornato nei pressi del locale, dove probabilmente voleva ricongiungersi con la fidanzata. A quel punto è stato colpito di nuovo, questa volta con un arnese di ferro, che ne ha causato la morte. Ha perso la vita domenica, dopo quasi due giorni di agonia, in un letto del policlinico Umberto I di Roma. È arrivato in elisoccorso all'ospedale della capitale in condizioni già disperate. Subito è stato sottoposto a un intervento chirurgico per provare a ridurre le lesioni alla testa causate dai colpi ricevuti. L'operazione non è bastata a salvargli la vita e, quando è arrivata la fine, i suoi genitori hanno dato il consenso alla donazione degli organi.