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Terremoto, a L'Aquila il "miracolo" delle casette Berlusconi

Furono costruite in soli 100 giorni dal sisma del 2009. La sinistra attaccò l'ex premier, ma oggi chi ci abita lo ringrazia

Paolo Zappitelli
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L'AQUILA Le hanno chiamate «La Soluzione». Perché sono ancora una delle pochissime note positive in una città che, a distanza di sette anni, è ancora alle prese con una fase dopo-terremoto di cui non si vede la fine e con una crisi che si mangia le speranze di chi vorrebbe rialzare la testa. Le «casette», come tutti le conoscono a L'Aquila anche se casette davvero non sono, le vollero fortemente Berlusconi e Bertolaso per ospitare gli sfollati dopo il sisma del 6 aprile del 2009. L'idea era quella di dare un ricovero sicuro a chi non aveva più un tetto. Perché con l'arrivo del freddo la soluzione delle tende non era assolutamente gestibile e perché bisognava evitare il tormento dei container del tutto inadatti ad ospitare famiglie con anziani e bambini piccoli per più mesi. Ma non fu una scelta condivisa da tutti. Il centrosinistra attaccò ferocemente il premier, accusandolo di voler costruire una città ghetto ai lembi della città terremotata, di far diventare quello che doveva essere provvisorio definitivo e di non avere a cuore la ricostruzione del centro storico del capoluogo abruzzese. Sette anni dopo, però, quella soluzione, che ha funzionato egregiamente, è stata presa ad esempio anche da Matteo Renzi per sistemare decorosamente gli sfollati di Norcia e di Amatrice. E nessuno, stavolta, ha osato fare obiezioni. E del resto nelle «casette» a L'Aquila è difficile trovare qualcuno che sia critico. Nella fase dell'emergenza più acuta le imprese riuscirono a costruirle e consegnarle agli abitanti in soli 100 giorni. Centoventi come ritardo massimo. Furono realizzate 5.653 abitazioni, 4.449 in muratura, 1.204 in legno per circa 25mila sfollati. Non un unico grande agglomerato ma 19 piccole «new town», sparse tutto intorno alla città, la più vicina a poche centinaia di metri dal centro storico la più lontana a quindici chilometri, quasi alla pendici del Gran Sasso. Difficile chiamarle semplicemente «casette» perché sono quanto di più lontano da quella che siamo abituati a considerare edilizia popolare. Niente palazzoni alti, senza luce e abbandonati al degrado. Qui le ditte che hanno lavorato – principalmente del Trentino – hanno costruito edifici bassi, a tre piani, con grandi finestre, ampie zone verdi dove negli anni sono nati parchi giochi e campetti sportivi, rifiniture in acciaio e legno. Dentro appartamenti piccoli, massimo 50, 60 metri quadrati ma con tutto il necessario per vivere dignitosamente, dal televisore al frullatore alle piastre elettriche in cucina. Ma soprattutto si tratta di palazzine che sono state realizzate con criteri antisismici, tanto che molti che ancora abitano lì non hanno alcuna intenzione di tornare nelle vecchie case. Perché si sentono più sicuri. Anche gli ultimi terremoti che hanno sconvolto Amatrice e Norcia qui sono stati sentiti in maniera violenta. Ma le case non hanno subìto danni. Non ci sono state crepe. Merito delle «piastre» sulle quali sono appoggiate: i piloni che le sorreggono, sotto l'urto della scossa, ondeggiano in tutte le direzioni ma non cedono. E in questo modo assorbono le onde sismiche. Oggi non tutti gli appartamenti sono ancora abitati. Le persone ancora ospitate nel progetto C.a.s.e. sono 8.649, quelle nei M.a.p. (i moduli abitativi provvisori, praticamente dei bungalow) 2.205. Chi è riuscito a ristrutturare la vecchia casa se ne è andato e ha lasciato le stanze vuote. Ma in qualche caso c'è anche chi è stato costretto a spostarsi per colpa di lavori fatti male. In un paio di edifici nei terrazzi e nei solai ci sono state infiltrazioni di acqua e il Comune ne ha ordinato lo sgombero. Difetti nella costruzione, certo, ma anche cattiva manutenzione da parte di chi ne aveva la responsabilità. Ma c'è un altro timore, molto più grande, di chi abita vicino: che il governo possa comunque requisirle per darle agli immigrati. Annalisa Cozza, 75 anni, una delle residenti negli appartamenti di «Coppito 3», a qualche chilometro da L'Aquila, dà voce a quelle paure: «Sì, è vero, se qui trasferiscono troppi stranieri diventa davvero un ghetto. E allora chi ci vuole stare più?». Intanto però alcuni appartamenti delle New town sono serviti ad ospitare i primi sfollati che sono arrivati dal Lazio e dall'Abruzzo. In tutto circa 354 moduli. E proprio ieri il sindaco Massimo Cialente ha sgomberato 30 alloggi popolari a San Gregorio, una piccola frazione de L'Aquila, danneggiati dal sisma di Norcia, e ha trasferito i residenti nelle «casette». Per chi è scappato dalle macerie devono essere sembrate un regalo dal cielo. Quartieri tranquilli, perlopiù immersi nel verde che negli anni i residenti hanno anche cercato di abbellire. Salendo le scale che portano alle abitazioni ci sono vasi con i fiori, qualche tappetino fuori dalle porte. Che sono in gran parte blindate. Gli ospiti le hanno trovate già montate dalle aziende che hanno realizzato gli edifici. E oggi, a chiedere a chi ci abita, sembrano lontanissime le polemiche contro Berlusconi perché agli sfollati il governo fece trovare, in ogni appartamento, un televisore al plasma, una bottiglia di spumante e la casa perfettamente ammobiliata. Con tanto di coperte. «Furono critiche ingiuste – racconta uno dei residenti – perché per chi aveva perso tutto quello fu un segnale di speranza, un piccolo conforto psicologico». Soldi ben spesi, insomma. E di soldi a L'Aquila dal 2009 a oggi ne sono arrivati tanti. Quasi 12 miliardi, al ritmo di 800 milioni l'anno solo nell'ultimo triennio. Soldi sui quali qualcuno comincia a fare qualche conto. E a protestare. Perché dopo una moratoria durata anni adesso il sindaco Cialente ha iniziato a mandare ai residenti avvisi di pagamento. Per le bollette della luce. E per gli affitti. Nel villaggio di «Coppito 3» chi è proprietario di un'altra casa ma non è ancora riuscito a tornarci paga 120 euro al mese, chi era in affitto all'epoca del sisma ora ne deve versare 278. A condizione che abbia un reddito superiore a 12 mila euro. Altrimenti è esentato. Ma quello che più ha fatto montare il malcontento è stata la richiesta degli arretrati per l'energia elettrica consumata nel 2013 e nel 2014. Sono arrivate bollette da 1700 euro, in alcuni casi fino a 2500 euro. E la gente è andata in Municipio a lamentarsi. «Ma non potevamo fare diversamente – spiegano dal Comune – le cifre sono alte perché a un certo punto abbiamo dovuto iniziare a far pagare. Si tratta di conguagli per un paio di anni di arretrati». Eppure, nonostante qualche protesta le «casette» sono ancora l'unica parte «viva» del capoluogo abruzzese. Perché nei palazzi del centro storico quasi nessuno dei vecchi abitanti è voluto ancora tornare. La città per il momento è un immenso cantiere dove si incrociano solo operai. E quando se ne vanno loro, alle quattro del pomeriggio, resta il deserto. L'Aquila si scopre vuota, spettrale. In attesa di una rinascita che ancora si fa fatica a intravedere.

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