Tortora e la sentenza della vergogna
È una data che celebra un'infamia, quella del 17 settembre 1985: Enzo Tortora 30 anni orsono venne condannato in primo grado a dieci anni e sei mesi di carcere per associazione a delinquere e traffico di cocaina. Dopo un processo in cui si era visto di tutto, e si era capita sin dall'inizio l'aria che tirava (dopo la condanna i cronisti embedded con la procura di Napoli furono visti brindare la sera in osteria e Vittorio Feltri, inviato del «Corriere della sera», nonchè rara avis dell'innocentismo tra i giornalisti italiani dell'epoca, descrisse questa cosa in un memorabile articolo), Tortora dovette accettare questa umiliazione. Cosa che gli costò poi carissima nel prosieguo della sua vicenda che si concluse con la morte per il tumore che gli era scoppiato dentro un anno esatto dopo l'assoluzione definitiva in Cassazione. Solo molto recentemente alcuni dei protagonisti negativi dell'epoca, il pm Diego Marmo tra le toghe e il giornalista Paolo Gambescia tra i colpevolisti a mezzo stampa, hanno riconosciuto il tragico errore commesso. Inutile dire che nessuno dei magistrati dell'accusa o dei giudici togati del primo grado pagò per un errore giudiziario che è preso ormai per antonomasia per quel che c'è di peggio nella giustizia italiana. Il numero 17 ricorre in maniera quasi cabalisica in questa brutta e sfortunatissima vicenda: il 17 giugno 1983, un venerdì, è il giorno dell'arresto al Plaza e della passerella mediatica a via Inselci, la famosa foto di Tortora in manette e schiavettoni fece il giro del mondo. Il 17 settembre 1985 è il giorno della condanna in primo grado, sentenza letta alle ore 17, mentre il deposito delle motivazioni per l'assoluzione in appello (15 settembre 1986) è del 17 dicembre 1986. A dirla tutta Tortora il 17 gennaio 1984 era stato messo agli arresti domiciliari, il 17 giugno dello stesso anno venne eletto al Parlamento europeo, il 17 luglio rinviato a giudizio. Così come la tragica morte di Tortora avvenne nella notte tra il 17 e il 18 maggio 1988, un anno dopo che la Cassazione, il 13 giugno 1987, aveva stabilito che quell’inchiesta su di lui era stata un errore giudiziario a tutto tondo. Il giorno della condanna Tortora era a Strasburgo e sembra abbia commentato coi familiari più vicini e con gli avvocati con una semplice frase: «me l'aspettavo». D’altronde in un processo che aveva visto nell'udienza del 21 febbraio 1985 il presidente Sansone rifiutarsi di fare verbalizzare la scioccante testimonianza di Nadia Marzano (ex pupa di camorristi a casa della quale secondo quanto raccontava all'epoca Gianni Melluso, sarebbe avvenuta l'affiliazione di Tortora alla Nco di Raffaele Cutolo) che in aula raccontò le violenze anche sessuali, subite da parte di Melluso nella famosa caserma Pastrengo a Napoli i cui i pentiti erano tenuti a caviale e champagne e lasciati liberi di intimidire e persino di interrogare i testi, non c'era certo da aspettarsi un esito positivo. In questa triste vicenda peraltro il numero 17 ricorre anche in tempi più recenti, quando il sindaco di Pompei pensò bene di nominare Diego Marmo, ormai pm in pensione, assessore alla legalità. Marmo nel 1985 era quello che aveva rappresentato l'accusa in aula definendo Tortora «un cinico mercante di morte» e «un uomo eletto con i voti della camorra al parlamento europeo» con i radicali di Pannella. Travolto dalle polemiche per l'incauta accettazione della altrettanto improvvida nomina, lo stesso Marmo si scusò pubblicamente con la famiglia Tortora in un'intervista sul «Garantista». Così come qualche mese prima il mea culpa del «colpevolista» Gambescia era arrivato nel docufilm «Tortora, una ferita italiana» di Ambrogio Crespi. Ma in questa terribile pagina di storia patria di «giustizia all'italiana» sarebbero in molti a doversi scusare. Compresi quei colleghi in toga che elessero al Csm (e quelli che per anni sempre dentro al massimo organismo di autoregolamentazione di categoria permisero loro di fare incredibili carriere) i due pm che presero l'abbaglio iniziale: Lucio Di Pietro e Felice Di Persia. Quest'ultimo ancora recentemente negava che il caso Tortora potesse essere definito un «errore giudiziario» liquidando il «pentimento» di Marmo, come «ipocrita e politico». Ossia esternato mediaticamente al solo scopo di mantenere la poltrona di assessore alla legalità della giunta del sindaco di Pompei Nando Uliano. Sia come sia, oggi, 30 anni dopo quella condanna in primo grado che ancora grida vendetta, gli errori giudiziari sono talmente tanti che lo Stato ha speso già oltre 600 milioni di euro per ripararne una minima parte. In un dossier di errorigiudiziari.com, pubblicato proprio dal «Tempo» nel 2014, si calcolava che, dal 1989, anno della entrata in vigore del codice di procedura penale Vassalli, a tutto il 2013, 50 mila persone erano state vittime della cosiddetta mala giustizia. Praticamente 2 mila ogni anno.