Ecco la mappa dell'Islam "made in Italy“
Dossier dell'Antiterrorismo. A Roma 100 luoghi non censiti. E nei seminterrati si annida il pericolo jihadista
Oltre ottocento luoghi di culto sparsi in tutta Italia, da nord a sud, isole comprese, la maggior parte definiti impropriamente moschee. Una diffusione capillare che si estende per tutto il territorio nazionale, ma che quasi sempre utilizza strutture in cui mancano i requisiti minimi essenziali per essere riconoscibili come posti in cui si prega. A parte la Grande Moschea di Roma, e poche altre, come quella di Segrate, Catania e Colle Val d'Elsa, che anche architettonicamente sono individuabili, il resto sono garage, scantinati e cantine che all'occorrenza raccolgono fedeli. Centinaia di punti di riferimento, spesso invisibili, elencati uno per uno, regione per regione, ma rigorosamente top secret. Nessun segno esterno che identifichi i luoghi di culto, dunque, ma sono realtà comunque "tollerate" perché esistono sotto la definizione di "associazione culturale". FRA CULTO E RECLUTAMENTO Un monitoraggio dell'Antiterrorismo ha identificato, in tutta Italia, oltre a una trentina di call center e negozi vari, 820 luoghi di culto e 184 moschee. Solo a Roma quelle censite sono poco più di 30, ma in realtà sfiorano quota 100 i garage in cui si riuniscono musulmani per pregare. Una galassia che rimane sempre nella penombra e che espone alla mercè di imam, tabligh itineranti e predicatori d'odio, la parte moderata dell'Islam, tentando di inculcare la dottrina fondamentalista. In alcuni di questi centri, infatti, la preghiera è solo una copertura e una scusa per poter indottrinare alla guerra santa. Questi luoghi, inoltre, sfuggono ad ogni controllo. Oltre alle moschee riconosciute come "moderate", di cui fanno parte i musulmani devoti alla preghiera, al digiuno e all'elemosina, è da segnalare la presenza anche di quelle più inquietanti dei predicatori d'odio, dei reclutatori e delle "cellule in sonno", più volte oggetto di indagini dei servizi di intelligence e delle forze di polizia. Alcuni "predicatori d'odio" sono gli imam stessi che "gestiscono" la moschea. Altre volte arrivano da altri paesi in occasione del Ramadan. La nuova guerra santa condotta dall'Isis - spiega l'analisi dell'Antiterrorismo - ha aperto nuove frontiere allo sbarco di predicatori che ora arrivano in Italia attraverso altri percorsi. Giungere in via ufficiale con tanto di visto di andata e ritorno, infatti, non è conveniente. Meglio passare dal mare, attraverso i continui sbarchi di immigrati sulle nostre coste. Ancora meglio, però, sono le rotte via terra, attraverso i Balcani e l'approdo nel nord-est del nostro Paese, a ridosso del confine orientale, dove trovano frontiere facilmente valicabili grazie a "passatori" che li guidano. INFILTRAZIONI SOSPETTE E così, dal Piemonte alla Sicilia, in tutte le regioni, è presente almeno un luogo di culto islamico, nelle grandi città e nei piccoli centri, come ad esempio ad Acqui Terme in provincia di Alessandria, Arcole (VR), Carpi (MO) o Colle di Val D'Elsa (SI). La tipologia delle strutture, tranne i casi citati, per tutta Italia è sempre la stessa. Così come uguale resta il rischio di infiltrazioni terroristiche. In tutti i centri, però, l'attività di preghiera, anche negli statuti costitutivi delle associazioni culturali, passa in secondo piano. È preferibile far credere e pensare che rimanga un'attività collaterale ad altre, come l'insegnamento della lingua di provenienza ai bambini o lo studio del Corano. In realtà le sale sono adibite in prevalenza alla preghiera e, nei casi delle moschee definite a rischio, rappresentano un luogo di incontro per il reclutamento e l'indottrinamento alla jihad. Molti degli scantinati utilizzati - osserva il dossier - che possono arrivare a contenere anche centinaia di persone durante il venerdì dedicato alla preghiera, mancano dei requisiti minimi per la sicurezza. TRE MOSCHEE E UN GARAGE È il caso di quella in via Alò Giovannoli, a Roma, nel quartiere di Torpignattara, dove a fine luglio i vigili misero i sigilli e sequestrarono la struttura perché il manufatto sarebbe risultato abusivo nella parte adibita a luogo di culto. Il posto, inoltre, avrebbe comunque avuto problemi per il cambio di destinazione d'uso in quanto il locale è accatastato come box, quindi privo dei requisiti per l'accoglienza delle persone: spazio, aereazione e uscite di sicurezza. In quella circostanza il Municipio (come ha ricordato il quotidiano Libero) ha concesso l'ex aula consiliare di piazza della Marranella come sistemazione provvisoria ai bengalesi rimasti senza moschea. Sulla porta dell'edificio oggi si legge «Torpignattara Jama'at Masjid». Tutto questo in un quartiere inflazionato dalla presenza di centri islamici. A due passi, infatti, c'è la moschea di via Gabrio Serbelloni e quella di via Capua, subito dietro l'angolo. Neanche a pensare ad un conflitto tra etnie, perché si tratta di centri gestiti sempre da cittadini del Bangladesh. Una realtà in aumento vertiginoso, dunque, che specie nella Capitale è presente in modo capillare non solo nelle periferie. ESQUILINO A RISCHIO Nel centralissimo quartiere Esquilino, infatti, uno dei più popolati da immigrati, ci sono ben tre moschee. E nella storia di alcuni luoghi di culto musulmani, sparsi su tutto il territorio italiano, non mancano i legami con il terrorismo e con il fondamentalismo che i molti casi ha avuto anche risvolti giudiziari. Dal 2001 al 2011, infatti, sono state 146 le condanne di terroristi islamici "italiani". È appena il caso di segnalare come stiano tornano a circolare personaggi che frequentarono l'ex imam di Cremona, Mourad Trabelsi, condannato con sentenza definitiva con l'accusa di terrorismo internazionale di matrice islamica. O come Hamed Gouran, predicatore in Calabria, finito in manette perché incitava i fedeli alla cacciata dei miscredenti in nome di Allah. A Vicenza, poi, la Digos ha monitorato ingenti somme di denaro inviate all'estero che potrebbero essere state utilizzate per finanziare campagne terroristiche in Medioriente. Roma, poi, ha visto la presenza di numerosi soggetti vicini al terrorismo islamico, come il finanziatore Aweys Dahir Ubeidullah, cittadino somalo già residente a Roma, a Casalbertone, anch'egli incluso nella black list degli Stati Uniti, stilata successivamente ai fatti dell'11 settembre 2001. Aweys, inoltre, risultò coinvolto anche nelle indagini sull'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin avvenuto nel 1994. Insomma, una rete fitta e a volte impenetrabile quella degli estremisti islamici, che negli ultimi venti anni è cambiata e si è arricchita anche grazie al progresso tecnologico che facilita le comunicazione tra le varie reti di jihadisti. In alcune moschee, dunque, il pericolo che qualche imam propini ai fedeli una versione "esclusiva" del Corano, non è una fantasia. Spesso, infatti, chi ascolta il sermone si affida totalmente alle parole del predicatore considerato detentore della verità, anche perché se recitato in arabo risulta di difficile comprensione anche per i fedeli stessi. Non è sempre vero, infatti, che il pubblico che ascolta parli o capisca l'arabo puro. SERMONI E GUERRA SANTA È il caso dei bengalesi, ma anche di tunisini, marocchini o egiziani che parlano dialetti dell'arabo e che, quindi, non comprendano a pieno la predica. Ma nel mondo sommerso delle moschee illegali orbitano anche altri soggetti che nulla hanno a che vedere con lo spirito religioso dei credenti moderati. Si tratta di alcuni convertiti italiani, che scelgono di abbracciare la jihad. Tra i mujaheddin presenti nel nostro Paese, dunque, alcuni sono connazionali che scelgono di partire per i teatri di guerra mediorientali. Altri, invece, rimangono nel nostro paese rivestendo la figura di pericolose "cellule in sonno" attivabili in qualsiasi momento in maniera autonoma. Se ne contano oltre 5.500, stando alle stime più recenti. Il panorama dell'Islam italiano, dunque, fatto di realtà sommerse, conta al suo interno centinaia di potenziali estremisti che orbitano nelle moschee non autorizzate che in alcuni casi sono il centro di accoglienza e smistamento di immigrati arrivati sul territorio senza documenti e quindi senza identità. La problematica relativa alla certa identificazione di soggetti arrivati senza documenti, già dalla metà degli anni '90, è balzata agli onori della cronaca grazie ad alcune indagini delle forze dell'ordine che evidenziarono la presenza in Italia di reduci dal conflitto bosniaco e dalla guerra civile algerina, dediti comunque al proselitismo jihadista. Se insomma nei luoghi di culto la presenza di fedeli moderati rappresenta la maggioranza, esiste comunque la certezza che una percentuale seppur minima, di fatto pericolosa, sia dedita al proselitismo, reclutamento e all'invio di combattenti per le terre del jihad. E il monitoraggio costante dell'Antiterrorismo è la riprova che più di qualcosa, in centri semi-ufficiali, non va.