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L'ultimo ruggito della «Tigre» primo pentito di Cosa nostra

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Giuseppe Di Cristina voleva frenare l'ascesa dei corleonesi. Parlò con le guardie ma non gli credettero. Fu la sua fine

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Peppe Di Cristina, soprannominato "la Tigre di Riesi" per le sue doti di astuzia e ferocia, era un mafioso potentissimo, cresciuto nel cuore del vecchio feudo. La sua storia inizia nella seconda domenica di settembre del 1961, festa della Madonna della Catena, la cui statua di gesso, portata a spalla per le vie del paese, prima di entrare nella chiesa si ferma sotto un balcone dal quale esce il vecchio capo della "famiglia" di Riesi, don Ciccio Di Cristina. Costui, che come faranno scrivere nel "santino" funebre i familiari, quando sarà stato assunto in patria, «dimostrò con le parole e con le opere che la mafia sua non fu delinquenza ma rispetto alla legge dell'onore», davanti alla Madonna e a migliaia di riesini, presenta il figlio come il nuovo capo. Il 2 settembre 1960, Peppe "la Tigre" era comunque già convolato a nozze con la figlia del sindaco comunista di Riesi, Antonio Di Legami: testimoni dello sposo il catanese Pippo Calderone e il segretario regionale della Democrazia cristiana siciliana Graziano Verzotto. Costui, peraltro, il 26 marzo 1971, dinnanzi al Consiglio di presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, avrebbe cercato di giustificarsi: «Alla data del matrimonio... io ero molto lontano dal sapere in che cosa potesse consistere il fenomeno mafioso, che successivamente, per ragioni del mio incarico e per una permanenza nella zona, sono venuto a conoscere. Sono andato... Sono andato a testimoniare perché mi è stato chiesto dal fratello (Antonio, che sarà anch'egli assassinato nel settembre del 1987, ndr) esponente della Dc di Riesi, fratello che vedevo di tanto in tanto a Catania, nel '60, dove era impiegato di banca il Di Cristina». Dopo qualche anno alla Cassa di Risparmio e qualcun altro al soggiorno obbligato a Torino, Peppe "la Tigre" viene assunto come cassiere alla So.Chi.Mi.Si, la società chimica siciliana, con una lettera firmata dall'amministratore delegato dell'azienda, il repubblicano Aristide Gunnella, che assumerà, negli anni Settanta e Ottanta, alti incarichi di governo. Un'assunzione piuttosto discutibile e discussa, come ben mette in evidenza il Presidente in sede di Consiglio di presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, il 26 marzo 1971: «È a tutti noto che qualsiasi assunzione venga fatta, non dico in un ente pubblico e quindi in un ente regionale, ma anche in un'azienda privata, è preceduta da accertamenti rigorosi. Questo avviene per tutte le aziende industriali non solo in relazione al certificato penale, ma anche al comportamento dell'individuo nella sua vita privata, ai sui precedenti, ecc. Talvolta si arriva perfino all'assurdo di accertare anche il colore politico della persona che deve essere assunta. Questa è la prassi normale. Ora, come si spiega che nel caso Di Cristina questo non sia avvenuto? Che non sia avvenuto sotto il profilo degli accertamenti mafiosi, essendo intervenuta una sentenza passata in giudicato che lo condanna a 5 anni di soggiorno obbligato (sic!); che non sia avvenuto in relazione alla parentela, essendo il personaggio in questione figlio del noto Di Cristina, conosciuto da tutti nell'ambiente della Sicilia occidentale come capo mafioso; che non sia avvenuto anche in relazione alle sue condizioni economiche in quanto il fondamento della supplica del suocero apparentemente riguardava le sue precarie condizioni economiche, mentre i rapporti dei Carabinieri e della Questura accertano che Di Cristina, tornato dal soggiorno obbligato, versava in condizioni economiche soddisfacenti». Peppe "la Tigre" rinverdisce i fasti della mafia del nisseno, riorganizzandola e orientandone la potenza criminale verso i nuovi traffici della droga e del riciclaggio. Dal suo piccolo regno di Riesi controlla tutto quanto passi dalla Sicilia centrale: distribuisce appalti e favori, dirotta alle elezioni migliaia di voti, prima nelle liste repubblicane e poi in quelle scudocrociate, stringe rapporti di amicizia e di affari con le "famiglie" Badalamenti di Cinisi, Bontade e Inzerillo di Palermo, Rimi di Alcamo, Buccellato di Castellammare del Golfo. Maestro di trame sottili e orditi fini, insieme al boss catanese Pippo Calderone, suo compare e amico, cerca di stabilire un accordo incruento tra la Commissione e Michele Cavataio, giudicato responsabile dello scoppio della prima guerra di mafia, senza tuttavia riuscire nell'intento, sicché il 10 dicembre 1969 si giunge alla strage di viale Lazio. Anche come uomo d'azione, del resto, non scherza: pare sia lui a guidare i mafiosi, camuffati da medici, che il 28 ottobre 1970 fanno irruzione nell'ospedale civico di Palermo per uccidere l'albergatore Candido Ciuni, già ferito su suo ordine, per una pesante lite avuta in precedenza. Per questo patirà un breve periodo di detenzione, ma una volta scarcerato riprenderà indisturbato i suoi traffici. A Corleone, desolato paese a qualche centinaio di chilometri da Riesi, un altro potente mafioso, Luciano Liggio, non ne condivide, tuttavia, la "mentalità" circa la gestione degli affari: Di Cristina è contro i sequestri di persona, contro i traffici che espongano l'organizzazione a rischi inutili, contro gli omicidi che facciano rumore, innescando la repressione poliziesca. D'altra parte, l'ostilità dei Corleonesi e dei loro alleati è andata aumentando parallelamente al rafforzarsi dell'intesa del boss di Riesi con i fratelli catanesi Pippo e Antonino Calderone, nella quale vedono una possibile sponda per le famiglie palermitane, rivali nello scontro per la supremazia dentro Cosa Nostra. Due episodi contribuiranno, del resto, sul finire degli anni Settanta, a rendere precaria la posizione di Peppe "la Tigre" all'interno della mafia siciliana: l'eliminazione di Francesco Madonia, boss di Vallelunga, suo rivale nel nisseno, ma alleato di Riina, e il duro scontro con il "papa" Michele Greco, colpevole di avere tollerato che gli uomini di Corleone il 20 agosto 1977 uccidessero, nel Bosco della Ficuzza, il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, senza il consenso della Cupola. E proprio l'aver gridato, nel corso di un summit di mafia, agli altri boss - «Se il colonnello Russo era uno sbirro, chi l'ha ammazzato è stato ancora più sbirro» - ne decreta la condanna a morte, eseguita a Palermo, il 30 maggio del 1978, ad una fermata dell'autobus davanti agli uffici dell'assessorato regionale all'Agricoltura, per mano di un killer solitario, che fugge lasciandone sull'asfalto il cadavere insanguinato, col revolver ancora in mano. Nelle tasche della giacca dell'ucciso ci sono un'agenda zeppa di nomi importanti, i riservatissimi numeri telefonici dell'esattore di Salemi Nino Salvo e due vaglia cambiari emessi, il 22 maggio 1978, dal Banco di Napoli, Agenzia n. 24, all'ordine di tal Ciro Esposito, per dieci milioni ciascuno. Le indagini bancarie accerteranno, innanzitutto, che questi fanno parte di un gruppo di trentuno analoghi titoli, tutti per identico importo, emessi contestualmente, sempre a favore di Ciro Esposito e su richiesta di Gaetano La Pietra, dietro versamento in contanti della somma di trecentodieci milioni. Accerteranno, altresì, che sempre previo versamento di denaro contante, tra il marzo 1977 e il novembre 1978, lo stesso La Pietra ha richiesto alla medesima Agenzia n. 24 del Banco di Napoli, vaglia cambiari per due miliardi e settecento milioni, a favore di persone inesistenti o del tutto estranee ed ignare. L'esame dei nominativi dei negoziatori di detti vaglia, inoltre, fornirà un evidente spaccato delle connessioni, dei collegamenti e della sostanziale unità esistente a quell'epoca tra le "famiglie" mafiose, negli affari illeciti in genere e, in particolare, nel contrabbando di tabacchi e nel traffico di stupefacenti. Le medesime indagini finiranno, inoltre, per condurre a emersione gli articolati rapporti determinatisi a Roma, fin dagli anni Settanta, tra la criminalità organizzata locale, la mafia e la destra eversiva: una gran parte di quei titoli risulterà essere pervenuta a Domenico Balducci, il quale ne avrà trasferiti alcuni, pur senza firma di girata, ad Amedeo Mastracca, Ugo Mattia, Vittorio Guglielmi Di Vulci, Sergio e Savio Costantini, asseritamente come restituzione di prestiti effettuatigli da costoro. Altro negoziatore dei titoli in esame risulterà essere stato Danilo Sbarra, il quale verrà indicato da Salvatore Contorno come uno degli imprenditori edili della capitale del quale si serviva Pippo Calò, per investire il denaro d'illecita provenienza.

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