Il manoscritto di Pecorelli e il patto segreto degli usurai
«Piazza Campo dei Fiori (…) una mattina alle nove (…). La gente si urta, cammina di sbieco tra le bancarelle (…), le mani ingombre della spesa. Sotto la statua di Giordano Bruno tre hippies suonano e prendono il sole (…) Più avanti, all’angolo, il negozio (della ditta) "De Carolis elettrodomestici" ha appena sollevato le saracinesche. In vetrina (…) si intravedono due radio, un aspirapolvere (…) e un vecchio televisore. L’interno sembra deserto, qualche scatolone e nessun commesso. Ma, in fondo, dietro un bancone, c’è un piccolo office (sic!). È l’ufficio di un distinto signore. Sulla sua scrivania c’è un telefono che squilla di frequente, nel suo cassetto un imponente schedario. Il telefono suona, dall’altra parte si sente sempre la stessa frase "sono un’amico (sic!) dell’amico". Il distinto signore fissa un appuntamento nel suo ufficio. E il negozio di elettrodomestici accoglie (allora) persone con cartelle sottobraccio, l’espressione tesa, i gesti nervosi o stanchi. Il signore, che ha ufficio nel retrobottega del negozio di elettrodomestici, (dove) aspetta come un ragno le sue vittime, di professione fa l’usuraio: si chiama Spurio Oberdan». Nei suoi conti correnti, appoggiati presso vari istituti: «Banco di Santo Spirito, Cassa di Risparmio di Roma, Banco di Sicilia, Cassa Rurale e Artigiana dell’Agro Romano», passa «il 50% degli assegni post datati». È questo l’incipit di un manoscritto sequestrato, fra molti altri, nella redazione di O.P., la notte stessa della morte di Carmine «Mino» Pecorelli, il 19 marzo del 1979; molto probabilmente, l’abbozzo di un articolo, oltre tutto mai pubblicato, dagli scopi obliqui, secondo la migliore tradizione dell’Agenzia: «Questo racconto», si legge in chiusura, non è che all’inizio, forse serve tempo per rimuovere la roccia del vulcano e vedere la lava che c’è sotto»; sei pagine, vergate con una scrittura minuta e assai difficili da decifrare, sfuggite all’attenzione dei grandi investigatori capitolini, da subito impegnatisi allo spasimo nell’opus di ricostruzione del delitto di via Tacito. Se il fuoco della loro attenzione si fosse immediatamente concentrato su quel documento, avrebbero potuto apprezzare il livello assai elevato di conoscenze del giornalista assassinato sull’onorevole Compagnia dei Cravattari di Campo de’ Fiori: erano chiare all’autore del manoscritto sia la struttura di quel sodalizio sia le fonti di finanziamento criminale del mercato dell’usura, di cui esso si trovava al centro ed in cui erano preminenti gli interessi di Cosa Nostra. Non si sarebbe dovuto attendere che fosse la signora Italia De Carolis, moglie di Domenico Balducci, noto come «Mimmo er Cravattaro», a raccontare, post mortem mariti, trascorsi una decina di anni dalla redazione della bozza, come, subito dopo il matrimonio, lei e il coniuge avessero aperto un negozio di elettrodomestici in Campo de’ Fiori e a svelare i rapporti di affari intrattenuti da Mimmo con Oberdan Spurio, «il quale, delle persone che frequentava, era certamente la più equilibrata, ancorché (…) assatanato per il denaro». Piramidale, secondo le notizie condensate nel manoscritto, la struttura dell’onorevole Compagnia: «Al vertice c’è lui, il signore degli elettrodomestici», vale a dire Oberdan Spurio; subito sotto i collaboratori più stretti e i procacciatori d’affari; poi i clienti. «Spurio vende (il denaro) ai suoi garanti, che a loro volta (…) girano al 15% quel denaro (…) con interessi fino al 40%. Spurio, a debito estinto, non restituisce i titoli al cliente, ma ancora preleva un premio finale. Se qualcuno si rifiuta, è allora che mandano in campo i supporter legali». Puntuale è anche l’accenno ai più stretti collaboratori, contenuto nel manoscritto: «Da un bar di via Olevano Romano», si, «chiama al 254007 (…) Errico Nicoletti (…), un ex carabiniere, che poi cambiò casacca. Ora fa il gerarca di Spurio e i suoi rapporti con la mala gli sono andati storti solo una volta, quando il suo nome saltò fuori a proposito di un racket di auto rubate sulla Casilina (FIAR). In via Simeto, c’è l’altro vice Romolo Torda, nato pregiudicato e oggi costruttore. La rete di papà Spurio è capillare e si estende attraverso tutta la città. Molti uffici, un negozio nei diversi quartieri sono scali intermedi verso la stazione finale di Campo dei Fiori, sosta necessaria per un passaporto di garanzie e di omertà». Proseguendo nella lettura, il documento evoca altri scenari: «piazza Euclide: cuore dei Parioli, quartiere bene degli anni ’50 ora decaduto a dormitorio del sottobosco cinematografico e del public-relations girls per gli amori domenicali dei commendatori milanesi»; e altri personaggi. Prima fra tutti Iolanda Di Fiori, in arte Maria Fiore, attrice la cui carriera cinematografica si è sviluppata intensamente per tutti gli anni Cinquanta, per poi diradarsi all’inizio degli anni Sessanta, il cui «riferimento (è) "Amedeo - parrucchiere per uomo"» da dove «entrava e usciva sempre accompagnata da spensierate minorenni in cerca di guadagno»; quindi, Agostino «Tino» Pastorino, pregiudicato per reati contro il patrimonio e in materia di stupefacenti, arrestato, insieme alla stessa Maria Fiore e altri cittadini tedeschi e mediorientali, tra i quali tale Horst Keller, conosciuto dal Pastorino, probabilmente a Beirut, durante un comune periodo di detenzione, perché trovato in possesso di due chilogrammi di eroina, di provenienza siriana; e Angelo Di Cosimo, «già coinvolto a Palermo nel processo per la droga dei fratelli Canepa e che ora tratta i brillanti e i gioielli in un bar assai noto nel quartiere Prati», trovato «più conveniente» dalla donna, rispetto allo stesso Pastorino. Naturale che l’autore del manoscritto si ponga delle domande, le stesse che magari si sarà posto il defunto direttore di O.P.: «Cosa possono volere un trafficante di gioielli, un trafficante di eroina da una organizzazione di usurai? (…) E che ci stava a fare il 24 dicembre 1970 il cadavere di Enrico Possigli, guardaspalle di Giuseppe Rossi più conosciuto come Jo Le Maire, in via Bellisario 8, nell’appartamento di Spurio Oberdan? Come mai un innocuo commerciante affittò la sua casa a un noto gangster? Non è più facile pensare che l’organizzazione piramidale di Spurio funzioni da finanziaria per i grossi trafficanti di stupefacenti? E che la base della piramide sia allargata a comprendere piccoli commercianti protestati e industriali in difficoltà solo per coprire le operazioni più spregiudicate e quelle del tutto illecite? Come mai tanti direttori delle banche interessate per le diverse operazioni non hanno mai trovato nulla a che dire sullo spropositato giro d’affari del piccolo negozio di elettrodomestici?». Ed ecco che ipotizza, come avrà fatto anche il povero Pecorelli, le modalità di un’eventuale operazione di reinvestimento e riciclaggio di capitali d’illecita provenienza: «Proviamo ad immaginare il ciclo completo di un’operazione di finanziamento. Un trafficante poniamo di brillanti si rivolga ad un amico perché gli anticipi il liquido per l’operazione. L’amico dell’amico gli presenta Spurio e il nostro trafficante firma un assegno post-datato. Spurio dà i soldi e si parte per Beirut. Più tardi ad operazione compiuta la restituzione. E così un numero innumerevole di volte fino a che il nostro qualcuno vuole fare il furbo. Allora Spurio si rivolge ad altri suoi gerarchi e la lavorazione segue un’altra linea. È qui che scendono in campo i supporters legali Giuseppe e Antonio Barbagallo e il loro camerata Michele Trovato. È dallo studio di villa Pamphili che partono le operazioni di commandos per il recupero dei crediti e che si prendono le decisioni per punire gli infedeli. Anche se Antonio fu implicato in una truffa di due miliardi ai danni di una banca di Taranto non per questo è più indulgente con gli ex clienti del suo padrone. A Roma come a Milano, come a Bologna, come a Palermo, come a Marsiglia questo è solo la cima dell’intreccio di usura e Mafia che fortifica la malavita del nostro paese».