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Trump, i petrolieri e gli errori delle élite

Carlantonio Solimene
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Qualche sera fa mi sono ritrovato a scambiare due chiacchiere con mia cugina in occasione di una di quelle rimpatriate che noi meridionali sparsi per l'Italia ci concediamo di tanto in tanto. Lei, con l'ardore e l'intolleranza tipica dei suoi 21 anni, si scagliava contro la decisione di Donald Trump di affidare a un lobbista del petrolio il dipartimento Ambiente dell'amministrazione Usa. Io, che pure a grandi linee condividevo le sue argomentazioni, mi divertivo a contraddirla e a recitare il ruolo dell'avvocato del diavolo: “Chi l'ha detto che dobbiamo preoccuparci dei cambiamenti climatici?” la sfidavo. “Lo spiegano tutti gli scienziati!” ribatteva incredula lei. “Ma guarda che gli scienziati sono uomini come noi – la riprendevo – possono anche sbagliare…”. Mentre la sua rabbia montava e sfociava in un amaro “pensavo che fossi diverso”, mi domandavo il perché le stessi dicendo quelle cose. A un tratto ho temuto si trattasse di invidia per il suo entusiasmo da ventenne. Poi, per una volta, mi sono concesso l'assoluzione. A farmi reagire in quel modo, infatti, era semplicemente la constatazione che Donald Trump, per quanto alcune sue posizioni appaiano discutibili, è riuscito a convincere la metà o giù di lì degli americani a votare per lui. E anche chi non ne condivide le idee, ha il dovere di chiedersi perché ciò sia accaduto. La spiegazione che mi sono dato è che il presunto “bene” non può essere perseguito a dispetto degli effetti negativi che può arrecare. Mi spiego meglio: se da domani vietassi l'uso del petrolio per puntare esclusivamente sulle energie rinnovabili, cosa ne sarebbe delle persone che lavorano nell'industria del greggio? Farei sicuramente il bene dell'ambiente, ma potrei biasimare la legittima preoccupazione del benzinaio sotto casa mia? Ecco, io credo che il cosiddetto establishment – punito pressoché in tutte le competizioni elettorali degli ultimi mesi – sia colpevole esattamente di questo: aver creduto che non fosse il proprio ideale (che si chiami Unione Europea, difesa dell'ambiente, integrazione ecc.) a dover essere messo al servizio delle persone. Ma, viceversa, che fossero le persone a doversi adeguare a quell'ideale. Ulteriore aggravante di questo corto circuito: a pagarne il conto più alto non sono state le élite intellettuali, bensì le fasce più deboli della società. Le periferie degradate a causa dell'immigrazione, le categorie a stipendio fisso a causa dell'euro e via discorrendo. Da un lato c'era il presunto “Progresso” con la P maiuscola. Dall'altra il “popolo ignorante” incapace di comprendere l'inarrestabile avanzata della civiltà. Ma è civiltà l'impoverimento delle periferie? Merita di essere perseguito un ideale che, per svariate categorie, significa disagio e sofferenza? Ecco, credo che oggi chi legittimamente persegue obiettivi come la tenuta della Ue, l'integrazione con gli immigrati o la difesa dell'ambiente debba necessariamente porsi il problema di trasformare in vantaggi quelli che attualmente sembrano solo svantaggi. Rendere le energie alternative, ad esempio, più economicamente redditizie del vecchio petrolio. È un compito difficile ma ineludibile se si vuole arrestare l'ondata “anti-establishment” nel mondo. In quanto a mia cugina, le auguro di riuscire a coniugare meglio ideale e concretezza. Per non finire come la mia generazione. Che, spaventata dalla crisi, ha messo da parte l'ideale per affidarsi solo alla concretezza.

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