IL GIORNO DEL GIUDIZIO
Da Accozzaglia a Zagrebelsky, l’alfabeto del referendum
Pronti per il voto? Beh, se non vi è bastato quello a cui avete assistito nei due mesi di campagna elettorale, portate con voi nelle urne questo piccolo glossario sul referendum. E non prendetevi troppo sul serio: un sì o un no sull’altare sono molto molto più pericolosi... A come Accozzaglia. E, in effetti, vedere lottare insieme Berlusconi e D’Alema, Salvini e Vendola, Grillo e Monti, Fini e De Mita ha fatto un certo effetto. Matteo Renzi ci ha costruito buona parte della campagna referendaria. Ma la colpa alla fine è stata sua. Dire «se perdo, mi dimetto» è stato come annunciare i saldi da Zara. Non vi accalcate. B come Maria Elena Boschi. È lei, molto più del premier, a giocarsi tutto nel referendum. Travolta dalla storiaccia della banca di papà, ora è davanti a un drammatico bivio: trasformarsi da giovane giurista in costituente o rimanere per sempre solo Maria Etruria. C come Cnel, l’ente inutile per antonomasia che potrebbe sfangarla anche stavolta. Ma soprattutto come Combinato disposto. L’orrendo neologismo inventato dalla sinistra Pd per denunciare l’incrocio pericoloso tra Italicum e riforma, alla fine è diventato persino di uso comune. Del tipo: «Ti lascio per il combinato disposto tra la tua gelosia e il fatto che non sai cucinare». D come Deriva autoritaria. Che la riforma miri a dare più potere al governo è noto. Fa sorridere, piuttosto, che ad agitare questo spettro sia Silvio Berlusconi, che quando era al governo era accusato di deriva autoritaria un giorno sì e l’altro pure. Chi di deriva perisce... E come Enti locali. Cioè le odiate Province. Che, come ha detto la Boschi, «rinasceranno com’erano se vincesse il no». E, in fondo, è anche giusto: le Regioni se la sono cavata, Equitalia cambierà soltanto il nome, i 500 enti inutili censiti da Monti sono ancora lì. Perché dovevano pagare solo loro? Capro espiatorio. F come Financial Times e tutta la stampa estera che si è esercitata in previsioni catastrofiche e in endorsement che, ormai è risaputo, sortiscono l’effetto contrario. La vetta l’ha raggiunta l’Economist, capace di uscire lo stesso giorno con un editoriale per il no e un inserto per il sì. Neanche il Veltroni del «ma anche» avrebbe saputo far meglio. G come Governicchio, Governo di scopo, Governo tecnico ecc, ovvero tutti gli spettri agitati da Renzi in caso di vittoria del no. Che poi a dimettersi, si dimette di sicuro. Ma sul fatto che a Palazzo Chigi - dopo il giro di consultazioni - non ci torni lui, scommettono in pochi. H come Hasta siempre Fidel. Cosa c’entra Castro col referendum? In effetti poco. Ma è curioso come tanti di quelli che si sono agitati per la deriva autoritaria della riforma abbiano versato fiumi di lacrime per un dittatore. Coerenza. I come Italiani all’estero. Hanno varcato i confini per cercare fortuna altrove e dimenticare il Belpaese. Eppure, a ogni voto, vengono stalkerizzati dai politici di turno. Hanno ricevuto le visite di Salvini, Boschi, Di Battista. Sono stati sommersi dalle lettere di Renzi. E attendono più di tutti il voto con ansia. Per venire finalmente ignorati di nuovo. Solidarietà. L come Legge elettorale. Quella che «il mondo ci copierà» sta già esalando gli ultimi respiri. L’ennesimo capolavoro renziano: fingere di cambiarla per ottenere il sì del buon Cuperlo quando, invece, lo si era deciso da tempo per azzoppare Grillo. Machiavelli. M come Massimo D’Alema. Rottamato alla vigilia delle ultime Politiche, non si è scomposto e talvolta ha persino cercato di andare d’accordo con Renzi. In realtà aspettava con calma il momento della vendetta. Ora ha promesso che quella contro la riforma costituzionale sarà la sua ultima battaglia prima del ritiro. C’è qualcuno che gli crede? Frank Underwood. N come Giorgio Napolitano. Attivissimo in campagna elettorale al punto di oscurare - come se ce ne fosse bisogno - il silente successore. Si capisce il perché: ha fatto e disfatto governi solo con l’obiettivo di arrivare a questa riforma. E sente il voto come un giudizio sui suoi nove anni da Re Giorgio. O come Offese. Se ne sono sentite di gustose. L’oscar, come al solito, va a Grillo, capace di infilare un uno-due da maestro nella fase più calda della campagna: da «killer della democrazia» a «scrofa ferita». Decisamente sottotono Renzi. Per replicare ha detto: «I cinquestelle sono passati da onestà a omertà. Hanno solo cambiato una consonante». In realtà erano due. Confuso. P come Palermo. Che il M5S dovesse perdere la verginità giudiziaria, prima o poi, era evidente. Ma farlo durante la campagna referendaria più importante della sua storia, beh, non è stata proprio un’idea brillante... Q come Quorum. Il grande assente di questo referendum. Eppure questo non ha impedito al cervellotico Fabrizio Barca di sponsorizzare la posizione dell’«astensionismo attivo» nell’unica occasione in cui l’astensionismo non serve a nulla. Poi, infatti, ci ha ripensato. Voterà sì perché la riforma non cambia nulla ma è necessario garantire la stabilità del governo. Così, se poi dovessimo scoprire che la nuova Carta è tutta sballata, potremo consolarci per aver fatto arrivare Renzi a fine legislatura. R come Risparmi. Renzi ha parlato di 500 milioni di tagli, la Ragioneria dello Stato ha diviso giusto giusto per dieci. Tra i due estremi, una marea di altre stime di giornalisti, ex commissari alla spending review ecc. Tutti con la calcolatrice in mano convinti che si votasse per tagliare pochi spiccioli al bilancio statale e non per superare il bicameralismo paritario. Ragionieri. S come Senato. «È mai possibile che a votare leggi costituzionali e trattati europei saranno sindaci e consiglieri regionali?». Andatevi a rivedere i servizi delle Iene sulla preparazione dei parlamentari. Se ci sono riusciti loro, c’è speranza per tutti. T come Titoli di Stato. La campagna referendaria ci ha precipitato nuovamente nell’incubo «spread», tornato a sfiorare quota 200 nei giorni in cui i sondaggi davano il no stabilmente avanti. Giusto per ricordarci che, come nel 2011, la grande finanza ci tiene sempre sotto ricatto. U come Usa (e getta). O meglio: come farsi fare un endorsement coi fiocchi dalla stessa amministrazione democratica americana che poche settimane dopo sarà travolta dalle urne. Ma vale anche a parti inverse: siamo sicuri, caro Salvini, che rischiare di farsi arrestare in Piazza Rossa dall’«amico» Putin serva a denunciare la deriva autoritaria in Italia? Provincialismo tricolore. V come Voltagabbana. Ma se la riforma faceva schifo, cari Bersani, Monti, Schifani ecc, non potevate accorgervene quando la votavate per quattro-volte-quattro in Parlamento? Distratti. Z come Gustavo Zagrebelsky, simbolo dei «Professoroni» (Renzi dixit) che hanno trovato un’irripetibile occasione di visibilità. Peccato che, al momento del tu per tu col premier, il costituzionalista torinese pensasse di trovarsi in un’aula universitaria e non in uno studio televisivo. Risultato? Pubblico assopito e giuristi cancellati dal rush finale della campagna. Aridatece la Santanchè. Da domani sarà il momento di parlare di vinti e vincitori. Intanto... buon voto a tutti!