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La promessa di Al Bano: "Ho la sanremite, sono sempre pronto per l'Ariston"

Carlo Antini e Francesco Puglisi

Sessant’anni di musica e successi. Un viaggio emozionante e pieno di ricordi dalle umili origini pugliesi fino alle vette della celebrità internazionale. Al Bano si racconta nell’edicola degli artisti de Il Tempo dopo un bagno di folla tra curiosi e turisti. Confida debolezze, segreti e un sogno nel cassetto che non ha intenzione di mollare.

Chi è Al Bano?
«È una persona che, fin da piccola, ha capito che la sua strada è solo e unicamente la musica. Non ho mai avuto dubbi. Non mi sono mai arreso né mai mi arrenderò. Solo Dio potrà fermarmi».

Lei è rimasto sempre fedele alla sua terra d’origine...
«È stata colpa di Romina. All’epoca me ne andai nonostante l’amore che avessi per la mia terra ma ero più preso dai suoi difetti. Avevo capito che lì non avrei avuto futuro e partii per Milano. Feci l’emigrante come altri della mia famiglia che scelsero l’Argentina e come tanti amici. I treni che andavano al nord erano pieni e tornavano vuoti».

A cosa pensava durante il viaggio verso Milano?
«Mi sentivo pieno di energia. Quella notte non ho neanche dormito perché mi piaceva vedere il nuovo. Viaggiavo in seconda classe e sentivo l’odore della focaccia. Mi è rimasto impresso l’Adriatico sulla destra e i monti e le colline sulla sinistra».

Ha venduto più di 25 milioni di dischi. Qual è il segreto per restare sulla cresta dell’onda?
«Non ho segreti. Ognuno di noi ha un destino ma io ho avuto una volontà straordinaria che è tuttora in allarme. Di critici ne ho avuti tanti ma il critico migliore sono io. Carrisi è critico con Al Bano».

È molto severo con se stesso?
«Severissimo. Ancora oggi quando ascolto le incisioni di 50 anni fa mi dico: avrei potuto fare così! Ma è l’esperienza che ti porta a dire questo e allora perdono quel ragazzino che cominciava a cantare. Ma a canna, grazie a Dio, è stato sempre formidabile».

Qual è stato il momento più bello della sua carriera?
«Quando registrai il primo disco con la Celentano-Massara. All’epoca lavoravo alla catena di montaggio della Innocenti e mi occupavo di profilati. Amavo la Mini Minor e la comprai a rate. Guadagnavo 60mila lire al mese e 30 se ne andavano solo per le rate. A quella macchina ho voluto bene: tra noi c’era un rapporto umano più che di utilizzo. La chiamavo Carolina. La cassa integrazione arrivò proprio nel momento in cui dalla Celentano-Massara mi offrirono il primo contratto da firmare. Gli altri operai non ci credevano. Alla Innocenti prendevo comunque uno stipendio, con il Clan Celentano, invece, ero in standby perché era un contratto a percentuale. Col disco avrei avuto la possibilità di guadagnare ma non vendette molto. Quando Celentano suonava dal vivo, nella prima parte dei concerti ci esibivamo noi giovani del Clan e lì prendevo 10mila lire a serata».

Qual è stato il momento più difficile?
«Non sono mai stato in crisi. Non mi arrendo. Anche se le possibilità di andare in crisi ci sono state tutte. Mami sono detto: se vado in crisi faccio un danno a me stesso. Vengo da una famiglia che è quella che era e quel primo scalino non lo rinnegherò mai. Partirò sempre da quel punto: più crisi esistenziale di quella non ci poteva essere.
C’era povertà e una simpatica miseria. Ogni tanto arrivava anche il morso della fame. Come si possono dimenticare momenti come quelli? E da lì che vengono la mia fortuna e la mia forza. È lì che è radicata la mia voglia di esistere, divivere e di abbattere qualsiasi tipo di avversità».

Ripensando ai suoi esordi, come vede i giovani d’oggi?
«Non dobbiamo dimenticarci come eravamo. I giovani prendono sempre quello che offrono gli adulti. È sbagliato farne una colpa».

Sua figlia Jasmine sta seguendo le sue orme. Che consigli le dà?
«Mi piace perché prima studia e poi segue le mie orme. A questo tengo molto. Le ho detto: fai quello che ti piace ma non dimenticare che una laurea a casa mia la pretendo e ci riuscirò. Mia figlia Cristel si è già laureata in letteratura alla Harvard di Boston facendo la mamma e studiando online. Un giorno mi ha detto: papà io non mi fermo qui».

Quest’anno è diventato nonno per la quarta volta. Che emozioni ha provato?
«Ho capito che da padre si lavora molto di più. Il nonno trascorre il suo tempo coi nipoti ma non ha la responsabilità di un padre. È come essere un padre in vacanza ma con un bagaglio d’esperienza straordinaria. Un nonno, però, non deve mai invadere il campo dei genitori. Molti nonni sono invadenti ma sei hai fiducia in tuo figlio, nuora o genero è giusto lasciarli fare. Coi miei nipoti trascorro giorni fantastici. Dormiamo insieme e mi diverto a raccontare loro una favola che mi raccontava mio padre. Mia figlia mi ha detto di non aver mai visto ridere così tanto mio nipote».

Ci spiega la polemica con Amadeus prima dell’ultimo Sanremo?
«A me la gente che non mantiene i patti mi dà fastidio. Quella figuraccia mela sarei risparmiata ma la rispedisco al mittente. Amadeus mi disse che mi voleva a Sanremo in trio con Morandi e Ranieri. Era una mia idea che risaliva al ’96 ed era un sogno che si materializzava. Morandi mi diceva sempre: voi con quelle due voci mi schiacciate.
E io gli rispondevo: Mora’ non devono mica cantare le nostre voci ma le nostre storie. Sono tanti anni che siamo sulla breccia, stiamo sudando le 70 camicie e la gente ci accetta da sempre. Ma rispetto il parere di Morandi. Anche lui ha origini umili ed è diventato un grande della musica leggera».

E poi con Amadeus cos’è successo?
«Lui mi ha detto: quest’anno ti esibisci col trio e l’anno prossimo mi presenti il tuo brano e, se è bello, lo portiamo in gara. Al dunque, però, mi ha detto che non se la sentiva di rovinare il ricordo di quel trio. Ma stava parlando con uno che ha qualche giorno di esperienza. Non puoi trattarlo come se fosse un ragazzino che vuole andare a Sanremo. Mi ha detto che l’anno dopo avrei presentato il mio brano come autore e interprete e quello mi aspettavo di fare».

Cosa si aspetta dal nuovo Sanremo di Carlo Conti?
«Deve riuscire a eguagliare l’era Amadeus. Glielo auguro perché è un grande professionista e sa bene quello che deve fare e come. Gli faccio tanti auguri».

A Sanremo 2025 ci sta pensando?
«Onestamente sì. Anche se ancora manca il cavallo di battaglia».

Qual è il legame che ha col palco dell’Ariston?
«Soffro di Sanremite acuta. È una malattia che coltivo di anno in anno. Per chi nasceva in un paesino del sud Italia durante la guerra c’era solo il Natale, la Pasqua, la festa di San Marco e Sanremo. Per noi che lo guardavamo in tv era una specie di Eden. Tu cantavi e la gente stava lì con te. Era una specie di università della musica. Sanremo ci insegnava che qualcosa di bello poteva accadere. Poi il papà di Domenico Modugno fu promosso comandante delle guardie municipali e venne a lavorare a San Pietro Vernotico che era vicinissimo a Cellino San Marco. Giorno dopo giorno, abbiamo visto l’ascesa di questo artista dotato di un talento eccezionale e per me è stata una vera ispirazione. Quando vinse Sanremo nel 1958 con «Nel blu dipinto di blu» a Cellino c’erano solo due televisori: uno nella sede della Democrazia Cristiana e l’altro nella sede del Partito Comunista. Quando annunciarono il vincitore volarono in aria i fazzoletti. E io mi dissi: anch’io voglio arrivare lì. E poi è successo».

Quando è salito sul palco dell’Ariston ha provato le stesse emozioni di quando lo guardava in tv?
«Quando sono entrato nel mondo della musica leggera ho dovuto lottare con l’altro Al Bano.
Quello che da timido doveva diventare non timido. Quella timidezza mi faceva talmente male che andavo addirittura a vomitare. Un giorno mi guardai allo specchio e dissi: vuoi cantare o vuoi vomitare? Allora ho eliminato i pensieri negativi e sono riuscito a superare tutta quella timidezza».

C’è ancora qualche progetto artistico che vorrebbe realizzare?
«Vorrei esibirmi con Morandi e Ranieri. Con quel trio che finora ha avuto solo pochi minuti. Se si riuscisse a convincere il grande Morandi sarebbe un botto storico. Ma finora non ci è riuscito neanche Pippo Baudo».