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Bruce Springsteen, il suo "Nebraska" compie 40 anni

Carlo Antini
Carlo Antini

Parole e musica come ascisse e ordinate

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Diseredati, sconfitti, fuorilegge e assassini. Sono i personaggi che popolano le canzoni di «Nebraska». Sono lontani anni luce dal sogno americano che appare come un miraggio dalla provincia più profonda. All’inizio degli anni ’80 Bruce Springsteen decise di sovvertire le sue stesse regole. Armato solo di chitarra acustica, voce e armonica squarciò il velo dell’ipocrisia su devianze sociali descritte senza condanne preventive ma con l’onestà intellettuale di chi è ostinatamente alla ricerca della verità. Anche nella musica.

Il Boss registrò le dieci canzoni dell’album in casa con un multitraccia portatile a 4 piste per poi incidere altre versioni in studio con la E Street Band. Ma restò insoddisfatto e convinse la casa discografica a scegliere i demo originali che vennero pubblicati il 30 settembre 1982, 40 anni fa. Ne risultò un lavoro amaro e dal ritmo lento che spezza la discografia proposta dal rocker fino a «The River» con ballate monocorde e testi poetici e radicali. «Nebraska» è un album che qualcuno definisce addirittura horror, un disco «dark». E sinistri sono anche i temi affrontati nelle canzoni tra personaggi ai margini e figure dal passato e presente oscuro che portano per le strade la cattiveria del mondo.

Strettissimo il rapporto col cinema già a partire dal brano che dà il titolo al disco. Racconta una vicenda che ispirò numerose pellicole tra cui «Natural Born Killers» di Stone e «Badlands» di Malick. La storia è quella del 19enne Charles Starkweather e della sua fidanzata Caril Ann Fugate che, tra la fine del ’57 e i primi giorni del ’58, fecero una mattanza uccidendo undici persone in una settimana tra Nebraska e Wyoming. Nel 1991 l’attore e regista Sean Penn produsse anche «The Indian Runner» («Lupo Solitario» in italiano), pellicola completamente ispirata al testo di «Highway Patrolman» e dove personaggi, ambientazioni e stile narrativo sono una fedele trasposizione della canzone di cui il film diventa omaggio ed estensione.

Nei testi di «Nebraska», Springsteen si lascia influenzare dalle raccolte di Harry E. Smith e Alan Lomax fino a Woody Guthrie e Bob Dylan. Ma scava anche nella grande tradizione letteraria del suo Paese, da John Steinbeck a Flannery O’Connor. Tra sprazzi vitali e guizzi di gioventù, attorno al Boss l’America era pronta a rimboccarsi le maniche armata di chitarra elettrica. «Nebraska», invece, va in un’altra direzione e torna alle origini, all’acustico, immergendosi in una strada buia e inquietante. Un altro Springsteen che dipinge esistenze fragili come foglie al vento, destinate alla perdizione, al rimpianto, alla violenza e vittime di qualcosa più grande di loro che non comprendono fino in fondo e che, in ogni caso, non possono controllare. «Nebraska» non scava solo nell’animo di quell’America oscura ma anche nel nostro. Mettendoci di fronte allo specchio delle contraddizioni più scomode. «Non vi verrò a dire che mi dispiace per quello che abbiamo fatto/almeno per un po’ ci siamo divertiti/E quando tirate la leva della sedia elettrica/assicuratevi che la mia bella sia seduta lì sulle mie ginocchia». 
 

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