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"La canzone napoletana è eterna". Eduardo De Crescenzo canta le sue radici

Carlo Antini
Carlo Antini

Parole e musica come ascisse e ordinate

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Melodie eterne su cui Eduardo De Crescenzo accende i riflettori. «Avvenne a Napoli passione per voce e piano» contiene i brani interpretati dal cantante partenopeo accompagnato al piano da Julian Oliver Mazzariello e il libro di Vacalebre sul repertorio della canzone napoletana. 
Eduardo De Crescenzo, in cosa risiede l’attualità della canzone napoletana?
«Apprezzo l’originalità e la perfezione della melodia. I versi dei poeti raccontano i sentimenti dell’umanità e quelli si ripetono nei secoli: la grandezza di un poeta sta nella capacità di descriverli e di farli fiorire in chi ascolta. Quando ci riesce probabilmente si è guadagnato l’eternità».
Lei parla di «restauro gentile». Cosa intende?
«Ho cercato di capire cosa gli autori avessero scritto, quale potesse essere il suono del tempo in cui queste canzoni sono state create e ho cercato di rileggere i loro spartiti per voce e pianoforte perché è così che venivano scritte. Ovvio che interpretandole abbiamo aggiunto del nostro ma senza mai tradire la scrittura degli autori. Per “restauro gentile” intendo “rispettoso” delle intenzioni stilistiche degli autori originali».
Quale fu la rivoluzione attuata dalla canzone napoletana?
«Sono loro che inventano la forma “canzone” così come la pratichiamo ancora oggi. Al “libretto” dell’Opera si sostituiscono i versi di grandi poeti e, dall’intreccio con i compositori del tempo, nasce “la canzone”. Si evidenzia anche la figura “dell’interprete”: un cantante deve essere capace di entrare nei versi del poeta e farli suoi. Grande fu anche la rivoluzione sociale e culturale: per la prima volta la musica dei salotti colti e delle corti nobili arriva nelle case di tutti e tutti ascoltano la stessa musica».
Cos’ha aggiunto al progetto un musicista di origini londinesi come Mazzariello?
«All’epoca a Napoli c’erano 4 conservatori e la città era meta ambita da musicisti e poeti di tutto il mondo. La percezione che si ha all’estero di questo repertorio è già di “musica classica”. Il valore artistico e compositivo di un pianista raffinato e sensibile come Julian mi garantiva a monte “il suono” napoletano ed europeo che cercavo».
Perché la canzone napoletana è, spesso, sottovalutata e oscilla tra gloria e oblio?
«Per ignoranza e superficialità. Persiste la convinzione che qualunque cosa cantata in dialetto napoletano sia “canzone napoletana”. Lo scempio degli urlatori, dei neomelodici, del degrado metropolitano, del karaoke non la riguarda. Basterebbe imparare a distinguerla per smettere di considerarla “opera minore”. I classici non conoscono l’oblio».
A quale canzone napoletana si sente più legato?
«Per motivi personali “Luna rossa”. È stata la prima canzone che da piccolissimo suonai con la fisarmonica. In casa zio Vincenzo era una stella, il fratello amatissimo di mio padre, quello del riscatto sociale di tutta la famiglia. Per motivi musicali, invece, l’ho scelta per chiudere questo disco perché è sul confine tra passato e presente. Abbiamo voluto proporla così: un po’ napoletana, un po’ bossa, un po’ noi oggi».
 

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