Inarrestabile Bob Dylan ma il suo primo album fu un flop
Quando l’album «Bob Dylan» uscì nei negozi, all’anagrafe il suo autore si chiamava ancora Robert Allen Zimmerman. Era il 19 marzo 1962. Il suo primo omonimo album vendette poche migliaia di copie e fu un fiasco commerciale totale. Ma Dylan si sarebbe presto rifatto con gli interessi. Sulla copertina la scritta «debut album» come se la Columbia Records avesse intuito che quel ragazzo poco più che ventenne era comunque destinato ad avere tanta strada davanti. Oggi quell’indicazione suona come la profezia di una carriera luminosa che l’avrebbe trasformato in uno degli unici due artisti a vincere sia Oscar che Nobel (l’altro è George Bernard Shaw).
Chitarra acustica, armonica e talking blues. Nei tredici brani di «Bob Dylan» la voce nasale e tagliente sembra essere già un marchio di fabbrica. Pochi fronzoli e tanta verità. Sei corde che suonano come un’arma puntata in faccia a chi ascolta. Scavano dentro e ci mettono di fronte a contraddizioni e malcelate insicurezze. In verità «Bob Dylan» contiene solo due brani inediti composti dall’autore. Il resto sono cover di artisti che avevano già lavorato per la Columbia. Nella scelta delle canzoni ebbe molta influenza il produttore John Hammond che aveva conosciuto Dylan durante le registrazioni di un album di Carolyn Hester in cui il cantautore suonava l’armonica.
«You’re no good», «Talkin’ New York», «In my time of Dyin’», «Man of Constant Sorrow», «Fixin’ to die», «Pretty Peggy-O», «Highway 51», «Gospel Plow», «Baby, let me follow you down», «House of the risin’ sun», «Freight Train Blues», «Song to Woody» e «See that my grave is kept clean». La tracklist è immersa nell’atmosfera di New York e Greenwich Village all’inizio degli anni ’60. Dylan si trasferì nella Grande Mela nel gennaio del 1961 per suonare e far visita a Woody Guthrie, il suo idolo ricoverato al New Jersey Hospital. Guthrie fu una vera rivelazione ed ebbe un’influenza enorme sulle prime composizioni. Più tardi, a proposito del suo maestro, il menestrello di Duluth disse che «potevi sentire le sue canzoni e allo stesso tempo imparare a vivere». A quei mesi risalgono le prime interviste in cui spiega le origini dell’attrazione per il folk.
«La mia passione è nata quando ho ascoltato Odetta - dichiarò Dylan - Ho sentito un suo disco in un negozio quando ancora i dischi si ascoltavano lì. Era il 1958, più o meno. Proprio allora sono uscito e ho venduto la mia chitarra elettrica e l’amplificatore per comprare una chitarra acustica, una Gibson». Risalgono al periodo in cui incideva l’album di debutto anche le prime considerazioni riguardo la religione. In un’intervista concessa a «Sing Out!» disse a Izzy Young: «Non ho religione. Ho provato un mucchio di religioni diverse. Le Chiese sono divise. Non riescono a mettersi d'accordo, e nemmeno io. Non ho mai visto un dio, non posso dire niente finché non ne vedrò uno». Nato in una famiglia di origini ebraiche, alla fine degli anni Settanta si convertì al cristianesimo evangelico.
Con «Bob Dylan», però, riuscì finalmente a uscire allo scoperto. Nel giro di una manciata di anni sarebbe arrivata la ribalta della Marcia di Washington, il rapporto speciale con Joan Baez e le lotte per i diritti civili. Un viaggio senza soste che il 13 ottobre 2016 l’ha portato perfino a vincere il Premio Nobel per la letteratura «per aver creato nuove espressioni poetiche all'interno della grande tradizione della canzone americana».
E pensare che 60 anni fa l’album «Bob Dylan» passò praticamente inosservato. Nel primo anno vendette soltanto 5mila copie che furono sufficienti a malapena a coprire le spese di produzione. Le tredici canzoni vennero incise in tre pomeriggi con un investimento di poco più di 400 dollari. La Columbia Records considerò Dylan come una delle follie di Hammond a cui suggerì di stracciare il contratto. Fortunatamente nella stanza dei bottoni qualcuno cambiò idea e la storia prese tutt’altra piega. Dopo 60 anni il suo Never Ending Tour non è ancora finito.