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Prince, il folletto del pop che lottò contro i giganti del disco

Carlo Antini
Carlo Antini

Parole e musica come ascisse e ordinate

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Non capita a tutte le popstar di ricevere attestati di stima da parte di un mostro sacro come Miles Davis. A Prince è successo. Anzi lui e Davis hanno collaborato decine di volte. Sperimentazioni e contaminazioni sono sempre state la cifra stilistica di Prince Roger Nelson, in arte semplicemente Prince. Il folletto di Minneapolis ha abbracciato generi e influenze, intrecciando black music, pop, rock, rap e psichedelia. E’ stato uno dei musicisti più influenti e prolifici degli anni Ottanta. Nel 1985 conquistò perfino un Oscar con la colonna sonora composta per «Purple Rain». Il 21 aprile sono passati esattamente 5 anni dalla sua morte prematura avvenuta nel 2016 all’interno dei Paisley Park Studios.

L’esordio alla fine degli anni ’70 grazie alla scommessa della Warner che diede carta bianca a un talento tanto giovane quanto ambizioso. Prince scrisse e incise completamente da solo l’album «For You», suonando in studio tutti gli strumenti. Ma sono stati gli anni Ottanta a regalare al pubblico il meglio della produzione. Un decennio in cui Prince diede prova di grande eclettismo. In «1999» arrivano le prime avvisaglie del successo, con singoli come l’omonima «1999» e «Little Red Corvette» che attirano l’attenzione del grande pubblico. Ma è con «Purple Rain» che Prince entra nel club delle superstar. Il singolo diventa un tormentone e la colonna sonora del film campione d’incassi gli regalerà un Oscar. «Purple Rain» diventa un marchio di fabbrica, il suo cavallo di battaglia e l’inno personale che lo avrebbe accompagnato per il resto della carriera.

Ma Prince era pronto a mettere tutto in discussione: «Around the World in a Day» cambia le carte in tavola e punta dritto al cuore pop della psichedelia. Ma le mutazioni non sono finite e i successivi «Parade» e «Sign o’ the times» lo lanciano definitivamente nell’Olimpo del rock con tournée trionfali che fanno il tutto esaurito ovunque. Per Prince il decennio d’oro si chiude con un’altra colonna sonora, quella scritta per il film «Batman» di Tim Burton che lo catapulta nuovamente nello star system hollywoodiano con tanto di love story con l'allora conturbante Kim Basinger. Sono questi gli anni delle stravaganze da star. I promoter assicurano che era disposto a salire sul palco solo se prima i suoi camerini fossero stati riempiti di rose e garofani.

Prince continuava a sfornare un disco all’anno dimostrando eccezionale produttività e creatività vulcanica. Tutti i nodi, però, sarebbero venuti al pettine e, all’epoca, lui stesso ammise: «Per ogni canzone che pubblico ne scrivo altre cinque ma i meccanismi dell’industria musicale non mi permettono di pubblicarle». E con quei meccanismi arrivò presto allo scontro frontale. Le major posero un freno alle uscite discografiche e Prince iniziò a sentirsi in gabbia. Lo scontro deflagrò negli anni Novanta, quando Prince cominciò a pubblicare le sue canzoni sotto altri pseudonimi tra cui TAFKAP (The Artist Formerly Known As Prince) o semplicemente The Artist. Ma il dado era tratto e Internet riuscì a dargli nuovo ossigeno. Il suo rapporto con le major fu sempre più altalenante e molti album vennero distribuiti solo online. Poi arrivarono i problemi di salute che lo costrinsero a interrompere d’urgenza la tournée del 2016. La mattina del 21 aprile fu vittima di un’overdose di antidolorifici. Il suo corpo fu trovato in un ascensore dei Paisley Park Studios. E proprio lì, per il quinto anniversario della morte, le ceneri sono state esposte nell’atrio in un’urna a forma di Paisley Park. «Non ho mai avuto intenzione di causarti dolore / Non ho mai voluto farti soffrire / Volevo solo vederti ridere una volta / Volevo solo vederti sotto la pioggia viola».

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