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Francesco De Gregori 70 volte, perché il principe diventa re

Carlo Antini
Carlo Antini

Parole e musica come ascisse e ordinate

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«Io mi ricordo quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla». Quei quattro ragazzi non erano un’immagine partorita dalla fervida fantasia di Venditti in «Notte prima degli esami». Avevano un nome e un cognome e si chiamavano Francesco De Gregori, Antonello Venditti. Ernesto Bassignano e Giorgio Lo Cascio. Erano i primi anni ’70 e il Folkstudio di Roma era il laboratorio in cui si formava la prima scuola romana dei cantautori. Da lì partiva l’avventura di una generazione di musicisti e poeti della canzone che sarebbero diventati un punto di riferimento per l’Italia intera. De Gregori era il più schivo del gruppo ma forse l’erede più puro di quella tradizione di folk singer che nasce da Bob Dylan e Joan Baez per proseguire con Simon & Garfunkel e Leonard Cohen. Cantastorie che sanno illuminare l'intreccio melodico con racconti in cui ognuno può riconoscersi. Il 4 aprile, nel giorno di Pasqua, De Gregori compirà 70 anni.

Il suo viaggio artistico è partito da lontano. Dal progetto «Theorius Campus» in cui le canzoni di De Gregori e Venditti si alternano per la prima volta in un disco in vinile. Nell’album non figurano i loro nomi di battesimo ma brani come «Signora aquilone», «Dolce signora che bruci», «Roma capoccia», «Sora Rosa» e «Ciao Uomo». Il destino spesso è beffardo e le canzoni di Venditti conquistarono quasi subito l’attenzione di pubblico e critica. Il rapporto tra i due artisti si incrinò e i nodi vennero al pettine nel ’75, quando anche De Gregori raggiunse la fama con «Rimmel». L’album si chiude con «Piano Bar» che appare come una simpatica frecciata al vecchio amico. La pace arrivò tre anni più tardi, quando Venditti gli tese la mano con una canzone esplicita intitolata «Scusa Francesco».

Nel frattempo De Gregori era diventato uno dei cantautori italiani più apprezzati dal pubblico ma anche tra i più esposti. Ed è proprio in questo momento che la sua strada si inteccia con le lotte e le tensioni politiche degli anni Settanta. Il concerto del 2 aprile 1976 a Milano passò alla storia come il «Processo del Palalido». Il live di De Gregori fu improvvisamente interrotto da alcuni membri dei collettivi studenteschi che rimproveravano al cantante di strumentalizzare i temi della sinistra. La situazione degenerò e i contestatori lo costrinsero a rispondere sul palco alle loro domande. Volevano che rinunciasse al compenso della serata in nome della loro causa. Dopo una ventina di minuti fece irruzione la polizia con i lacrimogeni. A caldo De Gregori annunciò che non si sarebbe più esibito in pubblico. Anni dopo, però, a proposito del Palalido disse: «Quei ragazzi in realtà mi amavano, loro erano i fuochisti della nave, erano i diseredati. E io ero e sono dalla loro parte».

L’idea di abbandonare i concerti, però, venne abbandonata subito. E per De Gregori si aprirono le porte di uno dei capitoli più fortunati della storia della musica italiana: il progetto «Banana Republic» in tandem con Lucio Dalla. Insieme pubblicarono un disco da 500mila copie e inaugurarono la grande stagione dei concerti rock negli stadi. Grazie a Dalla e De Gregori la musica leggera italiana non fu più la stessa. Poi la storia arriva fino a oggi: i grandi successi degli anni Ottanta come «Titanic», «La donna cannone», «La leva calcistica della classe ’68», le stagioni delle collaborazioni con De André, Fossati, Morandi, Mannoia, Pino Daniele, Battiato, Nicola Piovani, Ambrogio Sparagna, Zucchero e le sei Targhe Tenco. Fino al nuovo capitolo con Lucio Dalla: il progetto «Work in Progress». Nessuna concessione alla nostalgia: «Ma come fanno i marinai» fu esclusa dalla scaletta. Concerti sold out e un tour che durò per più di un anno. Fino al disco dedicato a Bob Dylan e ai 40 anni di «Sotto il segno dei pesci» col concerto-evento di Venditti all’Arena di Verona. Il cerchio prova a chiudersi ma la pandemia mette tutto in stand-by. La poesia di De Gregori non si è mai fermata. Perfino Dylan una volta lo definì «leggenda della musica italiana». Quella di un cantastorie raffinato che vola oltre i suoi 70 anni da Principe. Questa volta la Storia è lui.
 

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