40 anni dopo

Omicidio John Lennon tra proiettili e dossier Fbi

Cinque colpi di pistola. Una calibro 38 che rompe il silenzio della notte davanti al Dakota Building, il lussuoso condominio per milionari affacciato su Central Park. È lì che abitano John Lennon e Yoko Ono. È lì che stanno tornando dopo una giornata al Record Plant Studio. Sono le 22.51 dell’8 dicembre e a New York fa freddo. John e Yoko scendono dalla limousine e si incamminano verso il portone. All’improvviso dal buio un uomo urla: «Signor Lennon…?». Sarà l’ultima cosa che John sentirà. Fa appena in tempo a voltarsi e sente quattro proiettili (il quinto non andò a segno) conficcarsi nella schiena e nel braccio. Fa qualche passo e si accascia sul marciapiede sussurrando: «Mi hanno sparato…». Poi più nulla. Accanto al corpo cadono gli occhiali e il demo di «Walking on thin Ice». A sparare è stato Mark David Chapman, un ragazzo di 25 anni con gravi turbe psichiche. Ha un passato da guardia giurata, in tasca duemila dollari e una copia de «Il giovane Holden». Il portiere del Dakota ha visto tutto, disarma Chapman e dà l’allarme. Accorre una volante della polizia e, con una corsa disperata, porta il musicista esanime al St. Luke’s Roosvelt Hospital. Non c’è più nulla da fare. Alle 23 e 15 John Lennon è dichiarato morto. Yoko Ono ancora incredula e in lacrime torna a casa e mette insieme qualche riga per la stampa: «John ha amato e pregato per la razza umana. Fate la stessa cosa per lui». Subito decine, poi centinaia, poi migliaia di persone si radunano davanti al Dakota Building per quella che diventerà una notte intera di canzoni per John. Per Yoko sarà la prima notte da vedova. Per Chapman, che dopo l’arresto si era scusato coi poliziotti per il disturbo, sarà la prima notte in cella che poi è il luogo dove è rinchiuso ancora adesso.

Il giovane killer ha premeditato l’omicidio nei minimi dettagli. A Honolulu, dove viveva con la moglie, ha comprato la pistola calibro 38. Poi è andato a New York e ha preso una camera allo Sheraton, solo a pochi isolati di distanza dal Dakota. Ha iniziato ad aspettare l’arrivo del suo idolo «traditore». Ai suoi occhi Lennon aveva perso la purezza. Non era più l’eroe della classe operaia che aveva rifiutato il titolo di «baronetto» e composto i brani impegnati e movimentisti di «Plastic Ono Band» e «Some time in New York City». Ormai era un riccastro viziato e disilluso che viaggiava in limousine e viveva in uno degli edifici più in di Manhattan. Si faceva fotografare sulle copertine di mezzo mondo. Una volta perfino in posa davanti al Dakota Building. Allo squilibrato Chapman tutto questo non andava giù. Proprio come Holden Caulfield de «Il giovane Holden» era arrabbiato, odiava il denaro e l’esistenza borghese. Così aveva maturato il suo intento omicida. Così voleva uscire dall’anonimato e conquistare la sua vana gloria.

  

E pensare che, negli anni ’70, Lennon era finito anche nel mirino dell’Fbi di J. Edgar Hoover. La polizia federale lo aveva studiato, spiato, pedinato più o meno apertamente. Aveva cercato di espellerlo dagli Stati Uniti per liberarsi di uno scomodo fiancheggiatore e finanziatore di movimenti radicali e nemico del Partito Repubblicano di Nixon. Anche dopo il trasferimento a New York, Lennon aveva continuato a svolgere la sua attività pacifista contro l’intervento militare in Vietnam. Aveva pubblicizzato iniziative anti-nixoniane e finanziato la pubblicazione di giornali estremisti. Era stato fotografato con personaggi ambigui come il nazionalista nero Michael X, fondatore della Black House e condannato a morte per duplice omicidio. Così l’Fbi di Hoover aveva messo in piedi un vero Dossier Lennon. Aveva cercato di «incastrare» il cantante accusandolo di aver fatto e continuare a far uso di droghe e di infrangere le leggi sull’immigrazione. Ma il musicista riuscì a cavarsela facendo leva su cavilli legali fino a ottenere nel ’76 la residenza negli Stati Uniti. Almeno fino a quell’8 dicembre 1980, quando i proiettili di uno squilibrato non gli diedero scampo.