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Chi ci mangia con M.: il business degli antifascisti da Scurati a Saviano e Marinelli

Giulia Sorrentino

Abbiamo trovato il nuovo business, con cui si guadagna meravigliosamente bene, con cui si fa il giro di circoletti italiani e internazionali ma soprattutto il giro di librerie e televisioni. Non è nemmeno un concetto rivoluzionario, anzi, è una sola parola e si chiama «fascismo». È defunto, sepolto, risale a un’epoca storica molto distante da noi; eppure, ne stiamo parlare in modo ossessivo e ridondante. Il motivo? Assenza di concetti. Si è fatto portatore di questa defunta idea (speriamo non lo sia anche la sua opera) l’attore Luca Marinelli che interpreta il Duce nella serie «M. Il figlio del secolo», in onda da ieri su Sky). L’artista ha detto che «è stato emotivamente complesso. Da antifascista, il fatto di aver dovuto sospendere il giudizio sudi lui per dieci ore al giorno sul set, e per sette mesi, è stato devastante».

Ci chiediamo come abbiano fatti i vari serial killer, o stupratori a interpretare quei personaggi, eppure difficilmente li abbiamo sentiti in crisi esistenziale. La domanda «perché farlo allora?» è banale, come lo è la risposta e si trova nella frase «follow the money».

 

La stessa strada che sicuramente avrà percorso lo scrittore Antonio Scurati, diventato una celebrità dopo essere stato censurato nel programma della Bortone, perché è proprio dal primo volume della sua saga bestseller che è tratta la serie di cui sopra. Vorremmo ricordare, in modo estremamente poco originale e citando la Treccani, che la censura è il controllo che in periodo di guerra l’autorità politica e militare esercita sulla corrispondenza per reprimere la libera espressione e circolazione delle idee. Strano che uno scrittore di simile respiro usi in modo improprio un termine la cui matrice storica ha fondamenti ben preciso. Eppure, il suo monologo è stato letto in mondovisione e il suo volto è ovunque.

Però una cosa ce l’ha insegnata: il fascismo è pop, crea hype, della serie «purché se ne parli». Ma crea anche consensi, forse, visto che lo spauracchio del ritorno del fascismo e di questo mostro a tre teste di centrodestra con Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani, viene usato da «intellettuali» radical chic.

 

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Abbiamo i vari Saviano che da esperto di mafia è diventato profondo conoscitore delle dinamiche della nostra politica interna. Poi ci sono Elly Schlein, Giuseppe Conte, i vari paladini delle case occupate come Bonelli, Fratoianni e la nostra europarlamentare Ilaria Salis. Forse Mussolini non è mai stato così popolare nemmeno durante il ventennio, e speriamo che chiunque stia cercando di fare propaganda sulle spalle dei propri elettori, accecati da questo bieco tentativo di creare allarmismo, si rendano conto che la cultura è tutt’altro. Che fare politica non vuol dire intimorire ma informare, coinvolgere, e soprattutto portare avanti concetti che si trasformino in azione. Insomma, con Benito Mussolini c’è chi si è garantito le vacanze, ma c’è anche chi lo ha fatto con scopo informativo e non autocelebrativo.

Ne hanno scritto recentemente anche Bruno Vespa con «Hitler e Mussolini», Aldo Cazzullo con «Mussolini il capobanda», Paolo Mieli con «Come Mussolini divenne il Duce». Ecco, penne autorevoli del nostro giornalismo che hanno voluto dedicare una parte della loro attività alla narrazione di un’epoca storica che va letta, conosciuta e studiata per la sua centralità.

C’è chi informa e chi fa propaganda, e discostarsi dai secondi è un utile esercizio cognitivo prima di tutto per non farsi prendere per i fondelli. Sapete chi usava come mezzo la paura? Proprio i regimi, gli stessi che una certa politica critica andando incoerentemente avanti a bavaglio e falso revisionismo storico.