Social vietati agli under 16, Parsi: "Spero diventi un'epidemia"
«Io morirò ma il mio avatar non morirà mai». Gli uomini hanno preteso di conquistare l’immortalità con questa ultimissima, virtuale difesa contro l’angoscia di morte, madre di tutte le angosce umane, scoprendo e creando «l’altro mondo virtuale». Un mondo dove, volendo, si può essere «attivamente/algoritmicamente» vivi per sempre e dove la popolazione degli avatar si rappresenta. Ed ogni informazione può essere ricercata, raccolta, approfondita per dare vita ad una formazione che, però, è esposta ad ogni forma di illegale innovazione. E, ancor più, proprio le piattaforme social. Ovvero, la nuova società virtuale, la piazza «virtuale» dove il mondo si incontra potendo, però, scegliere di non farlo mai fisicamente. Se noi consegniamo ai bambini e ai giovanissimi questa immensa potenza, questa formidabile risorsa senza essere o essere stati noi adulti per primi, educati ad «un uso virtuoso del virtuale», quello che commettiamo è un illecito, un abuso, un pericolosissimo limite per il futuro delle reali comunicazioni umane.
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Comunicazioni e necessità del comunicare da gestire umanamente prima di arrivare a spegnere «i replicanti» di Blade Runner, ai quali i giovani potrebbero essere tentati di delegare problemi, dubbi, incertezze, solitudine. Vero è che la decisione che l’Australia ha preso di vietare l’utilizzo dei È sempre meglio prima di tuto un’emozione o è sempre meglio dopo tuto la comprensione? social ai giovani sotto i sedici anni, fa l’effetto di un luminoso, vigile, rassicurante faro acceso nel buio di una notte tempestosa. Poiché, come ha sostenuto il primo ministro laborista Antony Albanese: «L’uso eccessivo dei social media corre il rischio della salute fisica e mentale degli adolescenti». Si tratta, dunque, di un passo necessario, di un intervento esemplare e decisivo, seppure preso in grande ritardo, per arginare gli effetti pericolosi ed insani di un uso non virtuoso del web. E, in particolare, dei social che al contatto in fisica presenza hanno sostituito «l’Internet addiction» dei contatti virtuali. Peraltro, il 49,3% dei giovani di oggi dichiara di sentirsi influenzato da quello che i social media veicolano. Personalmente, già nel 2009, con il contributo di Tonino Cantelmi e Francesca Orlando, avevo denunciato questo nel mio libro «L’immaginario prigioniero» (Mondadori).
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E, ancora, nel libro Generazione H (Piemme, 2017) laddove «H» stava per Hikikomori, avevo sottolineato quel che ora anche l’annuale indagine dell’associazione nazionale «Di.Te.» (Dipendenze tecnologiche, gap e cyberbullismo) in collaborazione con il portale studentesco Skuola.net ribadisce con efficacia. Ovvero che il 35% circa – su un campione di 2510 ragazze e ragazzi italianisi sente, dopo avere a lungo frequentato le piattaforme sociali, disancorato dalla realtà, triste, disorientato, insoddisfatto e niente affatto contento di com’è fisicamente in relazione al confronto con i modelli estetici veicolati dai social. Come dire: «Visito i social alla ricerca di “un fisico da post” con il quale tenere testa ed addomesticare stati d’animo di frustrazione, rabbia, impotenza che, al contrario, assai spesso, ed in considerazione di quel che trovo sulle piattaforme social, non possono che contribuire ad aumentare le mie insicurezze, le mie frustrazioni. Soprattutto quelle relative ad immagini corporee discriminanti ed anche misogine, ad ulteriore danno di un femminile già tanto perseguitato. Che dire? Speriamo che l’esempio dell’Australia diventi una rivoluzionaria, contagiosa, benefica epidemia rivolta finalmente a favorire il benessere nella vita degli adulti e di chi cresce accanto ed intorno a loro».