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Migranti, riparte il modello Albania e crollano gli arrivi. Ora i clandestini hanno i documenti

Dario Martini
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Il governo tira dritto anche di fronte agli ostacoli sollevati da alcuni giudici. La nave Libra della Marina Militare è attraccata questa mattina nel porto di Shengjin, in Albania, con a bordo otto migranti egiziani e bengalesi. È la seconda volta che accade, dopo che il tribunale di Roma, a metà ottobre, aveva ordinato il rilascio di dodici altri clandestini, anche loro egiziani e bengalesi, vietando che fossero rimpatriati perché i loro Paesi di origine non sono ritenuti sicuri. La settimana seguente il governo Meloni ha emanato un decreto legge aggiornando proprio la lista dei Paesi sicuri, includendovi proprio Egitto e Bangladesh, in modo da poter proseguire con il trasferimento dei clandestini nei due centri aperti a Shengjin e Gjader. Ma non è detto che i magistrati "colpiscano" di nuovo, dal momento che lo hanno fatto anche negli ultimi giorni. È accaduto a Bologna, a Catania e ieri a Palermo. In quest’ultimo caso un giudice ha sospeso la convalida del trattenimento alla frontiera di due migranti, un cittadino del Senegal e uno del Ghana, attualmente ospitati nell’hotspot di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, e ha chiesto un parere al Corte di giustizia europea, come ha fatto anche un altra toga di Bologna.

 

 

Come da prassi, le opposizioni gridano allo scandalo, denunciando quello che definiscono un enorme spreco di risorse pubbliche. «Otto migranti su una nave da guerra al costo di 36mila euro l’uno», tuona Angelo Bonelli di Avs. Eppure, questo ragionamento non tiene conto del principale effetto del "modello" Albania: la deterrenza. È vero che i migranti che oggi arriveranno a Shengjin sono solo otto, ma ci sono due fatti di cui tener conto. Nei primi giorni di presenza della nave Libra nel Mediterraneo sono stati controllati circa trecento migranti e di questi solo poco più di un terzo è risultato provenire da Paesi sicuri. Questa è la prima conseguenza: l’accorto tra Italia e Albania disincentiva i migranti a salpare dalle coste africane. Il secondo elemento da considerare, che permette di ridurre considerevolmente il numero di persone da trattenere nei centri per i rimpatri (Cpr), sia in Italia che in Albania, consiste nella ritrovata abitudine dei migranti di presentare un documento d’identità alle autorità italiane. Non lo faceva più nessuno. C’era chi addirittura lo gettava in mare prima di mettere piede a terra. Oggi non accade quasi più. Questo permette alle autorità italiane di avviare subito le pratiche di rimpatrio e di concluderle nel giro di un mese.

 

 

Certo, resta l’obiezione che l’extracomunitario di turno, non venendo trattenuto in un Cpr, faccia perdere le proprie tracce. Ma, nel caso venga fermato una seconda volta, dovrà risponderne in quanto già identificato. Non è un caso che proprio ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, intervenuto in audizione al Comitato parlamentare Schengen, abbia spiegato: «Noi, in quest’ultimo trasferimento che facciamo in Albania ci sono alcune decine di persone che sono state escluse, e questo è un effetto indiretto delle procedure, perché hanno tirato fuori il documento che è una delle condizioni di esclusione dal trattenimento». Intanto, il governo, dopo un ricorso in Cassazione (l’altro ieri proprio l’Alta corte ha respinto un ricorso di un marocchino), attende un pronunciamento che permetta di mettere un punto fermo sulla questione dei Paesi sicuri.

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