la sentenza

Vaticano, "Becciu usò i soldi in maniera illecita". Il cardinale fa ricorso

Rita Cavallaro

L’eccezionale gravità dei fatti, l’entità del peculato anche senza lucro personale e il ruolo apicale del cardinale. Sono questi i pilastri del processo del secolo, il dibattimento scaturito dall’affare del palazzo di Londra, sfociato nella condanna in primo grado dell’allora capo della Segreteria di Stato vaticana, Angelo Becciu. Per la prima volta nella storia della Chiesa, un collegio di laici ha emesso un verdetto di colpevolezza contro un cardinale: Becciu, che si proclama innocente, è stato condannato in primo grado a cinque anni e mezzo di reclusione per due peculati e una truffa aggravata, insieme ai protagonisti principali della compravendita del palazzo di Sloane Avenue, vittime di dossieraggio all’Antimafia da parte del finanziere Pasquale Striano e poi finiti nell’esclusiva de L’Espresso, lo scoop corredato da documenti riservati che aveva aperto il caso del gestione dei fondi vaticani. Dopo tre anni d’inchiesta, 29 mesi di processo e la pronuncia del Tribunale vaticano, presieduto da Giuseppe Pignatone (nella foto piccola), dello scorso dicembre, martedì sono state depositate le motivazioni sulla base delle quali il collegio ha emesso il verdetto sfavorevole agli imputati.

 

 

«È di tutta evidenza l’eccezionale gravità dei fatti (considerati singolarmente e nel loro complesso), in relazione sia all’entità delle somme di denaro (200 milioni di dollari Usa) oggetto del peculato, sia del protrarsi delle condotte criminose nell’arco di diversi anni e in contesti del tutto eterogenei, sia - soprattutto - per la qualità e peril ruolo apicale ricoperto dall’imputato», si legge nelle 819 pagine delle motivazioni. Nonostante Becciu, sostituto della Segreteria di Stato dal 2011 al 2018, non abbia sottratto nemmeno un centesimo dall’Obolo di San Pietro, per il Tribunale il reato di peculato si configura anche se non c’era «finalità di lucro». Ecco perché i giudici hanno condannato comunque il cardinale, così come Raffaele Mincione, il finanziere proprietario del palazzo di Londra, il broker Gianluigi Torzi, la manager sarda Cecilia Marogna e altri coimputati. Riguardo all’affare di Londra, i giudici sono convinti che il peculato sia confermato in quanto è emersa «la volontà di usare i beni in contrasto con gli interessi» della Santa Sede.

 

 

«Non può certo negarsi che l’uso in modo illecito dei beni della Chiesa», si legge, «si sia risolto in un tanto evidente quanto significativo vantaggio per Mincione e i suoi sodali quale diretta conseguenza della condotta illecita» del cardinale Becciu: nulla conta «che egli non abbia inteso agire con finalità di lucro, né che non abbia conseguito alcun vantaggio», in quanto le norme vigenti richiedono un’amministrazione «prudente, volta innanzitutto alla conservazione del patrimonio, anche quando cerca di accrescerlo, valutando le occasioni di guadagno pur se parametrate a una eventuale e comunque contenuta possibilità di perdita». Quindi l’investimento nel fondo speculativo «costituisce certamente un “uso illecito” di quei beni pubblici ecclesiastici di cui l’allora Sostituto Becciu aveva la disponibilità in ragione del suo ufficio e dei quali ben conosceva la natura e, conseguentemente, i correlati limiti legali di impiego». Il cardinale è stato condannato anche per un secondo peculato, riguardante un versamento di 125 mila euro alla Diocesi di Ozieri che, per l’accusa, sarebbe un finanziamento alla coop del fratello. Peccato che quei soldi sono ancora sul conto. «Non ho rubato nulla, mai», ha continuato ad affermare ieri il cardinale, che farà ricorso.