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Cardinale Becciu, l'intervista esclusiva: "Striano e i corvi vaticani? Qualcuno ha usato il Papa. Ora Cantone mi ascolti"

Rita Cavallaro
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«Il 24 settembre 2020 ha segnato la mia vita. Quella sera avevo l’Udienza di tabella con il Papa e andai gioioso a presentargli le pratiche riguardanti alcuni candidati alla santità. Trovai il Papa corrucciato. E iniziò subito col formularmi la strana accusa di peculato per aver spedito dall’Obolo di San Pietro 100mila euro alla Caritas di Ozieri, la mia diocesi, ma che, secondo quanto gli era stato riferito, erano stati spediti per arricchire i miei familiari. Dichiarò responsabile di storno di soldi mio fratello, Tonino, presidente della Cooperativa Spes. Un uomo che ha dedicato la vita per stare accanto a chi soffre. Caddi dalle nuvole e protestai la mia innocenza. Non volle sentire ragioni. A quel punto, ritenendo che il Papa non aveva più fiducia in me, gli presentai le dimissioni da prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Egli le accettò e aggiunse che dovevo rinunciare anche a tutte le prerogative cardinalizie. Rimasi ancor più sconcertato, ma chinai la testa. Iniziò da quel momento il mio duro e lungo Calvario, che cerco di vivere con serenità, ma che non mi impedisce di combattere per affermare la verità». Parla in esclusiva a Il Tempo, e ribadisce la sua innocenza, il cardinale Angelo Becciu, fedelissimo di Bergoglio condannato nel "processo del secolo" in Vaticano.

Cardinale, il Pontefice ha fatto riferimento a una segnalazione della Finanza riguardo a 100mila euro della Segreteria di Stato inviati alla diocesi di Ozieri?
«Il Papa mi disse: i magistrati vaticani hanno saputo dalla Guardia di finanza italiana che "videro la manina" di mio fratello, Tonino, prelevare somme e deporle nei suoi conti personali, subito dopo aver depositato i 100mila euro della Segreteria di Stato nel conto della Caritas. Chi erano quei finanzieri? Con quale autorità hanno controllato quel conto e hanno poi interloquito con i magistrati vaticani? Badi bene: la rogatoria internazionale per avere dalle Autorità italiane l’autorizzazione a fare controlli nell’amministrazione della diocesi di Ozieri fu inviata dopo il 12 ottobre e non prima del 24 settembre, quando mi furono formulate quelle accuse. Quanto sto dicendo ora, lo dissi già nella conferenza stampa che indissi il giorno seguente l’incontro con il Papa. Lo dissi "a caldo", nonostante mi trovassi in una condizione di grande sofferenza».

 

 

Sebbene non fosse prassi della Curia, Lei volle fare una conferenza stampa?
«In effetti ho saputo che molti, in Curia, mugugnarono per quella mia iniziativa. Lo feci perché quella sera, dopo il comunicato enigmatico della Sala stampa della Santa Sede, molti giornalisti mi telefonarono chiedendomi quali gravi reati sessuali avessi commesso per meritare una tale condanna. Non volevo che mi addossassero persino quel tipo di infamante reato e decisi di parlare, anche in nome della trasparenza che Papa Francesco ci ha inculcato».

In quella conferenza sembra molto sereno...
«In effetti mi sono meravigliato anch’io di essere apparso così sereno. Non nascondo di aver passato una notte travagliata, ma la mia serenità derivava dalla coscienza di non aver commesso nulla di male. Tanto più che dalla telefonata che feci, dopo il colloquio con il Papa, a mio fratello e al vescovo di Ozieri appresi che quei 100mila euro erano intatti nel conto della Caritas. Non c’era alcuna appropriazione illecita, alcun uso personalistico. Il Vescovo mi tranquillizzò. Ero sicuro che il Papa si sarebbe reso conto dell’inganno in cui era stato tratto e sarebbe tornato sui suoi passi. Immagini che ascoltai gli Angelus delle domeniche successive illudendomi che il Papa dicesse due parole di chiarimento. Sono passati quattro anni e tanti Angelus sono stati recitati, ma quelle parole non sono mai arrivate».

La campagna mediatica contro di lei fu massiccia.
«Fu terribile e planetaria! Fui umiliato e diffamato davanti al mondo intero. L’Espresso, con i suoi dodici servizi settimanali, fu in prima linea. Anche per le modalità e gli argomenti trattati, con collegamenti che spesso nulla avevano a che fare con le reali accuse, sembrava che fosse commissionato da qualcuno. Si determinò così una vera e propria gogna di dimensioni mondiali. Pensi che perfino in Angola, ove sono stato Nunzio per quasi otto anni, la televisione nazionale si occupò del mio caso per una settimana. Da uomo stimato e onorato in tutti i Paesi ove ho prestato il mio servizio diplomatico e nelle varie Nazioni in cui sono stato per presiedere, a nome del Papa, le cerimonie di Beatificazioni, sono diventato il cardinale corrotto che imbrogliava il Papa alle sue spalle. Inaudito! Una deformazione assoluta della realtà e della mia persona».

La campagna ha riguardato preminentemente la questione della compravendita del palazzo di Londra. Eppure non fu proprio il Papa, in quell’incontro, a dirle che non lo accusava di alcuna responsabilità sulla vicenda londinese?
«È falso quanto riportano i media, ovvero che il Papa quella sera mi ha condannato per l’investimento nel palazzo di Londra. Lo voglio dire una volta per sempre: il Papa ha escluso ogni mia responsabilità nelle vicende del palazzo. Non mi ha mai censurato per Londra, ma per il peculato dei 100mila euro inviati alla diocesi di Ozieri».

 

 

Nonostante ciò, Lei è stato processato e condannato nel processo sul palazzo di Sloane Avenue, insieme agli altri protagonisti della compravendita...
«Sono successe tante cose strane, come i due gendarmi che vengono a trovarmi a casa e, tra le altre cose, mi consigliano di ritirami in Sardegna e non rischiare un processo. Vista la mia resistenza, i magistrati, addirittura dopo due mesi e mezzo dalla "condanna" del Papa, mi formulano le accuse. Sappiamo poi com’è andato il processo con espedienti e manipolazioni di persone e fatti che sono state dimostrate in modo evidente. Io credo che con la loro sentenza i giudici abbiano smentito in pieno quello che era stato detto al Papa. Mio fratello non si appropriò di niente e la condanna ha finito per basarsi sulla presunta violazione di un canone, mai contestato prima, che censurava il fatto che nella Cooperativa, che operava con la diocesi e di cui la Caritas era socia, figurasse anche mio fratello».

Lei ha sempre detto di non aver avuto nessun vantaggio dalle operazioni contestate e dalle carte risulta che non ha mai sottratto neppure un centesimo. Allora perché è stato condannato in relazione a questi investimenti?
«Guardi, non lo comprendo. Non solo perché non mi sono mai appropriato nemmeno di un centesimo, ma anche perché non conoscevo le persone con cui la Segreteria di Stato, per il tramite di Credit Suisse, ha fatto l’investimento contestato. Avrei dovuto far arricchire sconosciuti? Che interesse avrei avuto? Sono accuse che offendono il buonsenso. Ammesso che siano stati investimenti non andati bene, il processo ha provato che erano stati proposti dagli uffici e io mi limitai a uniformarmi. Non avevo alcun motivo per dubitare della correttezza dell’investimento, che mi veniva espressamente rappresentata anche con appunti scritti, poi prodotti in Tribunale».

Non era monsignor Alberto Perlasca che li proponeva? Eppure è stato archiviato...
«Certo, era il capo dell’ufficio amministrativo che si occupava di quelle attività. Di lui non avevo motivi di dubitare. Lo trovai già al mio arrivo in Segreteria di Stato, si presentava come competente e qualificato. Mai mi furono rappresentate criticità. Ed è davvero assurdo che se lui che proponeva gli investimenti è stato ritenuto non responsabile, lo debba essere io per aver accolto le sue proposte».

Che cosa ha pensato quando nel processo è emerso che proprio Perlasca, che l’aveva accusata, era stato "imbeccato" da altri soggetti?
«Lo avevo sempre sospettato, il processo lo ha dimostrato. Anche per le modalità di inquinamento venute fuori. Messaggi, chat, telefonate, imbeccate varie. Falsità sul mio conto. Quello che è emerso è davvero sconcertante. Finanche lo stesso Promotore, ad un certo punto, ha dovuto ammettere che Perlasca aveva mentito ed era stato reticente. Che sofferenza apprendere quanto si stava tramando alle mie spalle. E lo sa ciò che è ancora più assurdo? Che nonostante tutte queste macchinazioni ai miei danni, nessuno mi ha accusato dei reati per i quali sono stato condannato. Neanche lo stesso Perlasca».

Dopo tutti questi anni di umiliazioni e di sofferenza, com’è il suo rapporto con il Papa?
«È quello di un figlio che si sente ingiustamente cacciato di casa dal proprio padre, per false accuse, e che fa di tutto per dimostrargli il contrario e riavere il suo abbraccio. Da tempo ho deciso di parlare pubblicamente, perché anche i fratelli nella fede, rimasti scandalizzati dalla mia vicenda, siano informati sulla verità dei fatti. La verità, per un credente, è un valore irrinunciabile. Per un innocente condannato, poi, non può che essere l’obiettivo primario da perseguire».

Lei, in quel famoso 24 settembre, rinunciò alle prerogative cardinalizie. Ma poi è tornato a partecipare al Concistoro?
«Sì. Ricevetti l’invito scritto e poi ne ebbi conferma diretta dal Santo Padre: era l’agosto del 2022. Fu un momento molto emozionante di vera comunione».

 

 

A marzo scorso, Il Tempo ha rivelato in esclusiva il filo rosso tra la sua vicenda e il presunto dossieraggio all’Antimafia. Il finanziere Pasquale Striano ha effettuato le intrusioni illegali alle banche dati su tutti i coimputati al processo, ma non su di lei, e ancor prima che la storia del palazzo fosse pubblicata da L’Espresso. Ha capito cosa c’è dietro?
«Guardi, non so proprio. Sono davvero confuso, sconcertato. Ma ho fiducia nella verità e nel lavoro che la magistratura sta facendo a Perugia. Da quello che leggo sui giornali, vogliono ricostruire i fatti in modo serio, preciso e puntuale».

Lo stesso procuratore Raffaele Cantone ha certificato gli accessi. Il promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi, ha un fascicolo aperto sugli spioni e ha avviato una cooperazione con Perugia per capire chi ha spiato il Vaticano. Lei è stato spiato?
«Non posso dire se sono stato spiato, anche questo credo che sarà accertato. Sono convinto, però, che quando, come nel mio caso, siano state dimostrate in modo così evidente le forzature utilizzate per coinvolgermi, niente può essere escluso. Ma non posso avere certezze in assenza di dati precisi».

Che ci possa essere stato un complotto contro di lei, alla luce delle interferenze di alcuni personaggi in vista in Vaticano, lo possiamo dire? Perché anche nel corso del suo processo molti aspetti della vicenda alimentano dubbi. Mi riferisco a quelle chat e agli omissis. Come mai c’è il segreto su quegli atti?
«Guardi la famosa "macchinazione ai miei danni" della quale parlai sin dal primo giorno è stata provata nel processo. Ci sono stati alcuni momenti in udienza, mentre veniva interrogato il monsignore che presentò il famoso memoriale contro di me, che ho pensato che fosse finito il processo. La forza e la capacità dell’accusa è stata quella di silenziare le gravi prove a mio discarico, emerse in modo clamoroso in aula».

Dopo il controinterrogatorio dei suoi avvocati a Perlasca, in cui quest’ultimo non fece una bella figura, avvenne un fatto strano...
«Io direi inaudito, se mi consente. Nella notte, finita l’udienza, la signora amica del monsignore inviò sul cellulare del promotore di giustizia 126 messaggi whatsapp, raccontando la storia di quell’accusa, come era nata e quali menzognere compagne di viaggio l’avevano spinta. Una storia incredibile, degna di una sceneggiatura da oscar. Nella progressione che portò al mio ingresso nel processo ci sarebbe stato addirittura un fantomatico magistrato in pensione che aveva consigliato al monsignore di accusarmi per uscire dal processo e salvarsi. Ma il promotore, di quella lunga chat, ha consegnato al processo solo sei messaggi, gli altri 120 li ha coperti con omissis. E parliamo di messaggi che si riferiscono proprio al periodo che portò il monsignore a depositare quel memoriale, risultante di inquinamenti e pressioni. L’unico obiettivo ero io».

Con quale motivazione vi hanno negato i messaggi?
«Segreto investigativo, ha detto il promotore. Apertura di un fascicolo a carico di ignoti. Ad oggi non sappiamo niente. Ma prima o poi finirà questa indagine e avremo diritto di leggere, ormai è aperta da quasi due anni. I miei avvocati hanno chiesto fino allo sfinimento di depositare i messaggi e di fare copia del contenuto dei dispositivi elettronici. Niente da fare».

La signora che ha mandato i 126 messaggi al promotore era la Genoveffa Cifferri che ha avuto incarichi nei servizi segreti italiani?
«Sì era lei, ed è la stessa che mi minacciò venendo anche a casa mia, quando il suo amico monsignore era indagato per le vicende finanziarie, e mi chiese di intervenire con il Santo Padre per aiutarlo. Poi, ritenendo che non lo avessi fatto, mi disse che sarei stato destituito e mi sarei dovuto procurare un avvocato, mentre il monsignore sarebbe stato reintegrato nel suo incarico in Curia. Davvero inquietante, anche perché quel vaticinio si realizzò in tutto e nei tempi che aveva preannunciato».

Ritiene plausibile che tra quegli omissis possa spuntare il nome di Striano o di qualche altro soggetto coinvolto nei dossieraggi?
«Non so dire cosa ci potrebbe essere. Ma non mi sento di escludere nulla, dopo le nefandezze emerse nel processo. Aggiungo che non è possibile che non siano messi a nostra disposizione elementi che dimostrerebbero come si è arrivati alle accuse infondate nei miei confronti, per di più inviati in piena notte al promotore da una persona che aveva così tanto caldeggiato e difeso la posizione dell’amico monsignore e che in passato aveva lavorato per i servizi segreti italiani. Mi chiedo: è mai compatibile la voglia di trasparenza, e accertamento della verità senza sconti per nessuno, con questa gravissima mancanza?».

Lei sarebbe pronto ad essere ascoltato, qualora il procuratore Cantone lo ritenesse utile?
«Certo, se la mia testimonianza può essere utile per ricostruire la verità, mi rendo pienamente disponibile».

Da una parte l’ombra del dossieraggio, dall’altro una condanna e l’attesa dell’appello. Come sta vivendo questa situazione?
«Le confesso che questa storia dei dossieraggi mi ha totalmente sconvolto. Se sono veri, si avrebbe un’ulteriore conferma che qualcuno voleva la mia distruzione morale. Ed è terribile apprendere che tutto questo sia potuto avvenire in Vaticano, provocando un danno enorme alla Chiesa e al Papa. Gente sconsiderata si sarebbe servita del Papa per chissà quali scopi. Inaudito! Ora attendo l’Appello, con il paradosso che si è fatto tutto molto in fretta nella fase conclusiva in Tribunale, ma da nove mesi attendiamo le motivazioni».

Nel processo è emersa una vicenda molto singolare, quella della famosa cena al ristorante "Lo scarpone", citata anche nelle chat che la signora Ciferri inviò al promotore.
«Guardi quella è un’altra storia incredibile. Ricordo che monsignor Perlasca mi disse che avrebbe voluto trascorrere con me una "serata rilassante", scrisse proprio così. Mi invitò con messaggi dettagliati, che i miei avvocati hanno depositato in Tribunale. Ci incontrammo e cenammo insieme. Nel processo si è scoperto che quella cena era successiva alle accuse contro di me e l’invito era un inganno. Gli era stato fatto credere che avrebbe avuto un ruolo nelle indagini, sarebbe stato una sorta di agente provocatore. Chi tramava contro di me non lesinava energie. Anche nei messaggi della Ciferri, nei pochi che ci hanno consentito di leggere, ci sono riferimenti a questa attività che Perlasca avrebbe dovuto svolgere. Leggendo le chat e quanto è stato riferito in aula per la preparazione di questa cena, il "dietro le quinte" è oltre ogni immaginazione».

Quali sono state le cose da salvare in questo tempo d’attesa nella sua vita?
«Le devo dire che questa prova mi ha avvicinato ai tanti che soffrono ingiustizia anche all’interno della Chiesa, ma soprattutto mi ha avvicinato ancor più a Dio. Prima o poi nella vita si sperimenta il crollo di punti di forza su cui si appoggiava, come per me le attività ecclesiali che ritenevo essenziali. Crolla persino una certa visione di Chiesa, l’unica certezza che rimane è Dio. Ci si aggrappa a Lui e da Lui si riceve forza, serenità, capacità di andare oltre il buio e spalancare il cuore anche verso chi ti ha fatto del male! È il paradosso e la bellezza della fede».

Ora lei frequenta una parrocchia di Roma?
«Tre giorni a settimana mi metto a disposizione per le confessioni. È stata una mia scelta ed è un’esperienza unica vedere un penitente riacquistare il sorriso dopo l’assoluzione. Dopo tanti anni di "burocrazia", mi mancava questa dimensione sacerdotale e il toccare con mano la fede della gente e la fraternità dei sacerdoti. Una bella esperienza, di vita cristiana e di comunità».

Con lei hanno sofferto in tanti. Chi le è stato particolarmente vicino?
«Devo riconoscere che la mia vicenda ha scosso molta gente, ma nello stesso tempo la solidarietà fin dal primo momento è stata tanta. È andata sempre più crescendo, specialmente qui in Vaticano, man mano che andava avanti il processo ed appariva chiara la mia estraneità ai reati addebitatimi. Da tutti i Paesi in cui ho lavorato ho ricevuto attestati di stima. Proprio avant’eri sono passati a trovarmi a casa tre Vescovi cubani per manifestarmi affetto e vicinanza. Mi sono stati vicini ovviamente i miei familiari, anch’essi purtroppo coinvolti nella sofferenza, il mio vescovo di Ozieri e sono grato ai miei avvocati che con passione e impegno mi sostengono».

La Sardegna è la sua terra e tanti fedeli sardi non hanno mai smesso si sostenerla. Questo l’ha confortata?  
«Enormemente! Tutta la Sardegna, fedeli, vescovi, sacerdoti e anche non credenti mi hanno espresso sostegno. Ho sentito come non mai il calore della mia gente che è rimasta incredula e sconvolta per quanto mi stava succedendo. La mia famiglia è conosciuta per la sua onestà e modestia, nessuno ha mia creduto alle accuse di affarismo e di arricchimento!».

Come immagina la fine di questa incredibile vicenda giudiziaria?
«Con il trionfo della verità. Con una pronuncia che rispecchi la realtà dei fatti. Io ho sempre servito la Chiesa e il Santo Padre con lealtà e devozione. Non mi rassegno. Finché vivrò, ho il dovere di urlare al mondo la mia innocenza».

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