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L'Iran non può sostenere una prova di forza militare: l'analisi del generale Tricarico

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Leonardo Tricarico
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Non passa giorno che l’Iran non lasci trapelare, o chiaramente intendere, che non vuole imbarcarsi in una guerra aperta con Israele. E questo non solo per evidenti motivi legati alla modestia del suo strumento militare, ormai obsoleto in più componenti fondamentali, ma anche perché la strategia messa in campo nell’area si è rivelata molto più remunerativa rispetto all’impiego tradizionale delle armi. Senza l’uso organizzato della forza l’Iran ha penetrato numerose realtà statuali dell’area, radicando in maniera spesso significativa il potere, che da semplice seme si è tramutato in capacità interdettiva per non pochi governi legittimi. Gli Houthi in Yemen ed Hezbollah in Libano ne sono gli esempi più probanti, senza parlare di Iraq e Siria. Mettendo nel contempo a punto formazioni armate di tutto rispetto, collegate a Teheran da un legame quasi gerarchico, e battezzate «l’asse della resistenza»; o «l’asse del male» nella visione israeliana.

 

È di questi ultimi tempi l’incremento delle attività di penetrazione nell’area tra Afghanistan e Pachistan volta a reclutare milizie spendibili anche esse in scenari armati, o preferibilmente in attività terroristiche riconducibili allo sciismo. In tutto questo, l’acuirsi dei rapporti con Israele e il loro eventuale precipitare in aperto conflitto, non rientra nei piani di Teheran. Da parte statunitense è evidente un interesse simmetrico e congruente con quello iraniano, anche se dettato da motivazioni diverse.

Non sono inverosimili le indiscrezioni trapelate circa un incontro segreto occorso il 4 agosto in Iran tra una delegazione statunitense e una iraniana volto a convincere Teheran a una reazione moderata in cambio di un allentamento delle sanzioni e di una ripresa dei colloqui sul nucleare.

L’osso duro resta Tel Aviv o meglio, Netanyahu. Non deve esserci dubbio per alcuno che gli omicidi mirati del 30 e del 31 luglio hanno riguardato due esponenti di vertice del terrorismo radicale, Fuad Shukr ed Ismail Haniyeh, due soggetti sulla cui pericolosità e sul cui ruolo tutta la comunità internazionale, nelle sue aggregazioni formali, non ha mai nutrito incertezza alcuna. E tuttavia è altrettanto vero che i tempi scelti per la loro eliminazione si sono rivelati quanto mai improvvidi, in controtendenza, in qualche maniera propizi per incasellare una chiara eterogenesi dei fini.

 

Se è vero, come pare sia vero, che Ismail Haniyeh, nei defatiganti round negoziali per la liberazione degli ostaggi in mano ad Hamas, sia stato il negoziatore più malleabile, il più propenso a pervenire ad un cessate il fuoco accettabile, ucciderlo a freddo quando ospite per una cerimonia ufficiale in un paese terzo, fa sorgere legittimi dubbi sulla vera strategia della dirigenza israeliana e sulla genuina determinazione a riportare a casa le decine di cittadini ancora in mano ai terroristi.

Non è insensato a questo punto pensare che per Netanyahu ogni evento sia funzionale alla sua sopravvivenza politica e privata (nei confronti della giustizia), che la sua idea di eliminare Hamas fino all’ultimo uomo sia la sua ancora di salvezza, che lo strumento per legittimare la sua furia sterminatrice sia la sua diffusa convinzione del cittadino israeliano che Hamas conosce solo il linguaggio della forza. Un bieco sfruttamento per fini personali di un sentire comune, una foglia di fico sulle sue torve mire.

In tutto ciò assistito, anzi incoraggiato, dalla componete radicale del suo governo, da coloro che forse più di lui dovrebbero rendere conto di questa preoccupante situazione nell’area.

In definitiva l’auspicio è che l’Iran possa in qualche modo far rientrare una seconda volta la crisi, che la sua reazione non provochi altra morte e distruzione, che gli Stati Uniti siano un po’ più convincenti con Netanyahu magari in differita, con una Kamala Harris più convincente rispetto ai deludenti risultati conseguiti da uno sbiadito Biden sul viale del tramonto.

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