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Meloni, missione in Cina. Bisignani e i segreti del viaggio non amato dagli Usa

Luigi Bisignani
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Caro direttore, Giorgia d’Oriente. Nella prima gara Roma-Pechino alle Olimpiadi in salsa nostrana, Palazzo Chigi batte il Quirinale 1 a 0. Meloni è riuscita infatti ad anticipare Mattarella che volerà in Cina solo a fine anno in occasione della fine dei festeggiamenti dedicati a Marco Polo. Tuttavia, sono in molti a considerare quella di Giorgia una vittoria di Pirro e, tra i felpati corridoi della Farnesina, soffiano freddi spifferi per questo viaggio nel gigante asiatico. La premier, pur sempre presidente di turno del G7, ha finito per fare come Viktor Orbán, andato in missione di pace a Mosca senza alcun mandato europeo. E seppure Xi consideri Meloni la leader mondiale più preparata sui vari dossier in discussione, non ha gradito che, durante la conferenza stampa, lei in sostanza gli abbia suggerito i rapporti da tenere con Putin. Consigli non richiesti, dicono a Pechino, che in ogni caso non avrebbero dovuto essere resi pubblici.

Oltre ai grandi sorrisi e all’innata simpatia italiana, quello che ha colpito i cinesi è stata la decisione, davvero riuscita, di portare con sé la figlia Ginevra. I cinesi, che alla famiglia tengono particolarmente, hanno apprezzato il fatto che la bimba, durante il periodo di vacanze scolastiche, abbia seguito la mamma in un viaggio così distante ed impegnativo. A Giorgia Meloni va dato atto di essere riuscita in un capolavoro diplomatico se si pensa che, soltanto sei mesi fa, decise di non rinnovare il memorandum d’intesa della Nuova Via della Seta, voluto nel 2019 dal governo Conte, arrivando oggi a siglare con quella stessa Cina un patto economico triennale, in presenza di un Xi Jinping che all’incontro ha affermato: «Sostenere e portare avanti lo spirito della Via della Seta». Parole che ha ascoltato solo Dario Scannapieco, ad di Cdp fresco di conferma, perché forse per scelta non c’era nessuno dei vertici del sistema industriale italiano: assente il capo di Confindustria, Emanuele Orsini, non pervenuti gli amministratori delegati delle più importanti partecipate di Stato: Claudio Descalzi (Eni), Matteo Del Fante (Poste), Flavio Cattaneo (Enel), Roberto Cingolani (Leonardo), Pierroberto Folgiero (Fincantieri) e Giuseppina Di Foggia (Terna). In compenso, della delegazione davanti a Xi facevano parte, tra gli altri, il social media manager di Chigi, Tommaso Longobardi e non poteva mancare, as usual, la segretaria Patrizia Scurti. Chissà se sono stati così abili «da aprire nuovi spazi», ma certamente da adesso non ci sono più scuse: le aziende italiche avranno da conquistare praterie sul mercato del Dragone partendo intanto però dalla realizzazione di impianti per la costruzione di auto elettriche cinesi in Italia. La decisione ha suscitato disappunto, adducendo che la premier avrebbe fornito a Pechino un grimaldello per infilarsi in Europa e aggirare i dazi, del 38%, che vorrebbe Bruxelles per limitare l’acquisto di prodotti cinesi sottocosto e non mettere in crisi l’industria automobilistica europea.

 

Un passaggio che rischia di costarle caro nel rapporto con Washington. Sia Biden che Harris, per non parlare di Trump, considerano i dazi altissimi l’unica possibilità per fronteggiare le e-car cinesi in un’ottica ultra protezionistica. Qualche annotazione nel merito: vogliamo regolamentare l’Intelligenza artificiale, ma poi non la sviluppiamo in Italia; parliamo di energia, che produciamo sempre meno e che importiamo dall’estero. E, nel metodo, forse sarebbe stato meglio aspettare l’esito delle elezioni americane per capire come si orienterà la politica estera del mondo occidentale.

Una testata cinese, il Global Times, scrive a proposito della cooperazione con l’Italia: «In un periodo di incertezza globale e di declino della leadership statunitense», gli Usa non hanno gradito le dichiarazioni di Pechino sull’Italia che «aderisce alla politica dell’Unica Cina» mentre i caccia con la stella rossa violano sempre più spesso lo spazio aereo di Taiwan, proprio quando nelle stesse ore si teneva l’incontro tra Giappone e Usa per potenziare la protezione nucleare americana contro l’espansionismo cinese e le minacce nordcoreane.

Insomma, laddove gli americani restano fedeli al motto romano «Si Vis Pacem, Para Bellum», se vuoi la pace prepara la guerra, l’Europa e l’Italia continuano a vivere nel mondo fiabesco di Alice.

 

«Serve reciproca fiducia ma con regole nuove», dice Giorgia Meloni. Eppure, la favola della rana e dello scorpione la conosciamo tutti. Uno dei primi risultati della vecchia Via della Seta fu il tentativo cinese di acquisire una società friulana che produceva droni per le Forze Armate: andò a vuoto per un’inchiesta della GdF e l’intervento del governo Draghi. E quando la «reciproca fiducia» si traduce, come ha scritto il Foglio, con la nostra intelligence che impartisce indicazioni ai partecipanti al viaggio in Cina di non portare devices personali e usare telefoni usa e getta con nuove schede sim, oltre a distruggere documenti e appunti cartacei, si capisce con chi hai a che fare.

Ma Meloni sembra aver scommesso sul dare nuova vita al partenariato strategico tra i due Paesi avviato venti anni fa da Silvio Berlusconi. E tutto questo mentre, sino al 5 novembre, il mondo resterà sospeso, in attesa che gli americani decidano chi andrà alla Casa Bianca e come gestirà i rapporti con la Cina. La Harris è in pieno exploit di finanziamenti e consenso, ma solo per il fatto di essere una «novità» e lei comunque resta per ora ancora in svantaggio.

Deve superare molte resistenze all’interno del suo stesso partito che punta a vincere davvero nel 2028 e ad un’affermazione al Congresso, ma soprattutto deve sconfiggere l’avversità manifesta di due donne potenti come Michelle Obama e Hillary Clinton che, per vari motivi, non possono accettare di vederla al potere né hanno intenzione di riconoscere la regia dell’operazione ad un’altra donna, Nancy Pelosi. Ma c’è un ulteriore aspetto che inquieta la campagna elettorale di Kamala: le decine di collaboratori che, per anni, ha maltrattato e cacciato, umiliandoli a più riprese. Saranno loro la vera arma di vendetta in mano a Donald Trump, assieme alle centinaia di innocenti sbattuti in carcere dalla candidata del partito democratico, quando era procuratore della California e si faceva chiamare generale senza permettere a nessuno di guardarla negli occhi. Il testosterone femminile va di moda non solo alle Olimpiadi.

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