parla il generale
Basta soldati sulle strade, il terrorismo non si batte così. La ricetta del generale Tricarico
Speriamo che sia la volta buona, speriamo che le dichiarazioni rese il 24 luglio in Parlmento dal Gen. Masiello, Capo Stato Maggiore dell’Esercito, siano l’avvio di una riflessione più profonda sull’impiego dei soldati nelle strade a supporto delle forze di polizia in funzione antiterrorismo.
Un impiego anomalo, concepito trenta anni fa come provvedimento di emergenza e che nel tempo è andato perdendo efficacia, significato e convenienza.
Molteplici sono le ragioni per una riconsiderazione, seppur tardiva ma sempre più necessaria, del provvedimento che da emergenziale è divenuto strutturale e quindi più complicato da abrogare. Basterebbe il solo assunto, ormai solido, che se falliscono le attività di prevenzione non vi è protezione possibile dagli attentati terroristici, per ripensare seriamente alla validità della protezione con presidi fissi di obiettivi cosiddetti sensibili. La strategia consolidata del terrorismo di stampo jihadista contempla la destrutturazione capillare delle organizzazioni estremiste e la chiamata alle armi individuale con qualunque mezzo e contro chiunque. Perde quindi significato il termine di obiettivo sensibile a meno di casi particolari per i quali si può intervenire di volta in volta.
Per contro, anche se non fosse stato chiaro, i conflitti in corso hanno aperto gli occhi anche ai non addetti ai lavori, rimarcando quanto un soldato addestrato sia merce pregiata da non sprecare in compiti di altri ed in mansioni non proprie, in supplenza delle forze di polizia che un giorno o l’altro dovranno farsi carico delle attività di controllo del territorio e della sua sicurezza. Trenta anni sono tanti, troppi per non aver ancora adeguato gli organici, commisurandoli agli impegni primari di chi ha la responsabilità della sicurezza.
Nel caso specifico già da tempo il numero dei soldati impiegati in mansioni di ordine pubblico e sicurezza ha superato quello dei militari impiegati in missioni internazionali, una sproporzione che anche nelle dimensioni la dice lunga su questa bizzarria italiana cui andrà messo fine.
E non finisce qui: gli ultimi anni hanno evidenziato una carenza vocazionale per il mestiere delle armi le cui cause andrebbero meglio messe in luce e che comunque hanno dimensioni tali da destare preoccupazione in chi deve progettare la struttura e l’organizzazione di difesa dello Stato.
Una controtendenza certa e persistente rispetto al trend di segno opposto notato con l’avvio della partecipazione dell’Italia a missioni internazionali di pace, allorquando i giovani parvero genuinamente conquistati dalle attività di carattere umanitario in favore di popolazioni lontane ed in stato di bisogno.
Un’ulteriore aggravante la cui incidenza è tutta da scoprire, riguarda la messa a punto degli organici, un esercizio non facile ma di risultato tipologicamente inequivoco: l’esercito andrà sostanzialmente irrobustito non solo con nuovi mezzi e sistemi d’arma ma anche con l’immissione di contingenti di soldati giovani e professionali.
Mantenere in queste condizioni e con queste prospettive sei settemila uomini nelle strade a proteggere obiettivi che non sono più tali ha giustamente fatto rompere gli indugi al gen Masiello, fattosi portatore di un messaggio equilibrato ma ben chiaro al Parlamento, nella speranza che di concerto con il governo possa essere avviata una revisione complessiva dell’impiego dei militari a supporto delle attività di ordine pubblico e sicurezza.