dietro il lusso

Giorgio Armani, dietro il lusso: cosa dicono le carte del Tribunale di Milano

Andrea Giacobino

Bufera giudiziaria e ombre di sfruttamento di lavoro nero cinese sulla principale controllata operativa di Giorgio Armani, uno dei più noti stilisti e imprenditori del Paese. Ieri infatti con una misura simile a quella adottata mesi fa per la Alviero Martini, un altro marchio della moda e lasciando facilmente prevedere che ne seguiranno altri a breve, la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano con un decreto di 31 pagine e a seguito di un'inchiesta dei pubblici ministeri Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e dei carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro ha disposto l'amministrazione giudiziaria per un anno per la Giorgio Armani Operations (GAO) spa. E’ la società controllata dalla Giorgio Armani spa con 1.212 addetti e un fatturato di oltre 900 milioni di euro che si occupa di progettazione e produzione di abbigliamento e accessori del gruppo del colosso della moda: Piero Antonio Capitini è l’amministratore giudiziario con udienza fissata il prossimo 19 giugno e giudice delegato Paola Pendino.

L’indagine con al centro un presunto sfruttamento del lavoro, attraverso l'utilizzo negli appalti per la produzione di opifici abusivi e il ricorso a manodopera cinese in nero e clandestina vede un sistema consolidato che riguarda diverse categorie di beni, come borse e cinture, e che “si ripete - scrivono i giudici - quantomeno dal 2017 sino ai più recenti accertamenti dello scorso febbraio” con la produzione “della merce a marchio Giorgio Armani” realizzata “in concreto” da “opifici cinesi, una produzione “attiva per oltre 14 ore al giorno, anche festivi”, con lavoratori “sottoposti a ritmi di lavoro massacranti” e con una situazione caratterizzata da “pericolo per la sicurezza” della manodopera, che lavorava e dormiva in “condizioni alloggiative degradanti” e con paghe “anche di 2-3 euro orarie, tali da essere giudicate sotto minimo etico”. Le aziende cinesi Pelletteria Gold di Chen Xiulin, Pelletteria Giulio di Lu Shenjao, impresa individuale Wu Cai Ju e Cinturificio Li Wang erano le quattro sub appaltatrici delle commesse ricevute da GAO dalle aziende italiane Manifatture Lombarde (Milano) di Claudio Budel e dalla Minoronzoni (Bergamo) di Giacomo Ronzoni, che lavorano per altri marchi fra i quali Versace.

La Gao, controllata dalla Giorgio Armani spa, sarebbe quindi stata “ritenuta incapace -spiegano gli investigatori in relazione alla misura di amministrazione giudiziaria disposta dal Tribunale di Milano - di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell'ambito del ciclo produttivo non avendo messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative ovvero delle capacità tecniche delle aziende appaltatrici tanto da agevolare (colposamente) soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato”. “La società - ha commentato la controllante Giorgio Armani spa - ha da sempre in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura. La GA Operations - conclude la nota - collaborerà con la massima trasparenza con gli organi competenti per chiarire la propria posizione rispetto alla vicenda”.

Tuttavia si è potuto accertare, spiegano i carabinieri, che “la casa di moda affidi, attraverso una società in house creata ad hoc per la progettazione, produzione e industrializzazione delle collezioni di moda e accessori”, ossia la Gao, “mediante un contratto di fornitura, l'intera produzione di parte della collezione di borse e accessori 2024 a società terze, con completa esternalizzazione dei processi produttivi”. L'azienda fornitrice, però, “dispone solo nominalmente di adeguata capacità produttiva e può competere sul mercato solo esternalizzando a sua volta le commesse ad opifici cinesi, i quali riescono ad abbattere i costi ricorrendo all'impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento”. Un presunto “sistema” che avrebbe permesso “di realizzare una massimizzazione dei profitti inducendo” l'opificio cinese “che produce effettivamente i manufatti ad abbattere i costi da lavoro (contributivi, assicurativi e imposte dirette) facendo ricorso a manovalanza in nero e clandestina, non osservando le norme relative alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché non rispettando i Contratti Collettivi Nazionali Lavoro di settore riguardo retribuzioni della manodopera, orari di lavoro, pause e ferie”.