L'analisi

Varese, pene più severe per chi aggredisce gli insegnanti

Riccardo Mazzoni

Non si fermano gli episodi di violenza nelle scuole: mentre non si è ancora spenta l’eco del pestaggio subito da un preside di Taranto, è infatti di ieri la notizia della professoressa di Varese accoltellata da uno studente prima dell’inizio delle lezioni, facendo così diventare sempre più urgente il problema di garantire le misure di sicurezza per il corpo docente. Queste aggressioni, sempre più frequenti, sono la spia di una deriva in atto da tempo, che mette in discussione l’autorevolezza e il prestigio dell’istituzione-scuola minando la stessa figura educativa all’interno di una società in cui sta perdendo ogni valore il principio di autorità. «Quando l’autorità è legittima – ha detto il ministro Valditara – è un elemento essenziale per il funzionamento di uno Stato democratico». È chiaro che occorre, a questo punto, un’operazione sia repressiva che di più vasta portata culturale. Il Parlamento sta per approvare il disegno di legge della maggioranza che per fornire risposte concrete ai crescenti episodi di violenza propone un incremento significativo delle pene detentive verso chi aggredisce gli insegnanti, i dirigenti e il personale scolastico.

 

 

Oltre alle misure punitive, per far valere i diritti del personale aggredito e non minare il diritto allo studio, la legge prevede anche percorsi formativi di sensibilizzazione e la costituzione di un Osservatorio nazionale sulla sicurezza. Un passo sicuramente necessario, ma la scuola vive da tempo anche un’altra grave emergenza: quella del bullismo e del cyberbullismo tra ragazzi. Secondo l’ultimo monitoraggio svolto dal ministero dell’Istruzione negli istituti superiori - anticipato ieri dal Sole 24 Ore - più di uno studente su quattro dichiara di essere stato vittima di bullismo e l’8% rivela di aver subito atti di cyberbullismo. Anche in questo caso il Parlamento sta approntando alcune correzioni legislative alla legge del 2017, in base alle cui disposizioni è stato effettuato il monitoraggio, ma il fenomeno resta purtroppo ampiamente sommerso per la vergogna delle vittime che hanno difficoltà a denunciare i soprusi sia alla scuola che alla famiglia. Dieci anni fa il Ministero emanò una direttiva per disciplinare all’interno delle scuole il ricorso alle risorse informatiche per far sì che i pc messi a disposizione dei minori non fossero liberamente accessibili per la connessione, subordinandola all’utilizzo di credenziali di autenticazione. Questo per ridurre quel senso di spersonalizzazione che spinge molti ragazzi a utilizzare la rete scolastica per inserire via web riprese di atti vandalici o, appunto, per compiere atti di cyberbullismo. Ma gli atti di cyberbullismo non sono affatto diminuiti.

 

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L’esperienza dimostra purtroppo che non è sufficiente legiferare per arginare i fenomeni di prevaricazione: più volte governo e Parlamento, per arginare la violenza di genere o il cyberbullismo, hanno approvato una legge giusta che poi però non ha esplicato i suoi effetti o per il ritardo dei decreti attuativi o perché mancavano gli stanziamenti necessari. Il mondo della scuola è il paradigma di una più diffusa deriva sociale che calpesta il principio di autorità e sottrae autorevolezza alle istituzioni, e i diversi interventi normativi in materia hanno sancito un importante principio pedagogico: la scuola, quale luogo di crescita civile e culturale, rappresenta insieme alla famiglia la risorsa più idonea ad arginare il rischio dell’inosservanza delle regole, nella consapevolezza che la libertà personale si realizza nel rispetto degli altri diritti e nell’adempimento dei propri doveri. Questo sanciva il Dpr. 235 del 2007, e lo statuto delle studentesse e degli studenti riconosce che «i provvedimenti disciplinari hanno finalità educativa e tendono al rafforzamento del senso di responsabilità ed al ripristino dei rapporti corretti all’interno della comunità scolastica». Ma sono principi troppo spesso contraddetti dalla realtà.