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Ucraina, Paragone: la guerra di Putin e le analisi errate per paura di un giudizio

Gianluigi Paragone
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Questa settimana l’Economist ha posto una domanda che prima o poi doveva arrivare: Putin sta vincendo? Non ha posto la questione sulle ragioni di Putin ma sull’esito della sua strategia. L’Economist, insomma, ha rovesciato il metodo che finora ha viziato tanto la politica quanto il giornalismo e ha scollato il livello analitico da quello propagandistico, fornendo alla politica gli elementi per una mediazione che mantenga un equilibrio possibile. Aver raccontato di fantomatiche malattie terminali di Putin o di sue debolezze, ci ha fatto perdere di vista i movimenti del Cremlino sullo scacchiere multipolare, tipo nell’area balcanica o in Africa o ancora nelle relazioni coi Brics allargati.

 

Per mesi abbiamo registrato un engagement tra le opposte propagande, strozzando così gli spunti e gli elementi oggettivi. Era già stato il Wall Street Journal ad evidenziare il mancato successo della controffensiva militare ucraina e quindi del fronte occidentale, nonostante gli sforzi economici e di rifornimento d’armi (delle quali non è dato sapere il tracciamento). A breve gli Stati Uniti entreranno nel vivo delle Presidenziali e non sarà facile convincere l’elettorato sulle ragioni di tante spese a favore di uno Stato che manco sanno dove posizionare sulla cartina geografica. Nemmeno la beatificazione di Zelensky fa più la stessa presa dopo le bordate del sindaco di Kiev e le paranoie del presidente su traditori, spie e affini. C’è chi parla di putinizzazione di Zelensky.

Infine il discorso delle sanzioni, cioè il pezzo forte della retorica occidentale: chiudiamo con la Russia e Putin sarà costretto a cedere. Numeri alla mano, l’economia russa non ha ceduto, di contro molti imprenditori (anche in Italia) o si sono arrangiati triangolando con altri Paesi per arrivare a Mosca oppure sono andati in sofferenza. Per non dire della guerra del gas, tutt’altro che persa da Putin. Diciamo dunque che l’impatto delle sanzioni è servito più alla nostra narrazione che a far male al Cremlino. Come ha scritto recentemente su Le Monde lo storico Sergey Chernyshev, «almeno due terzi del popolo russo non ha avuto danni da questa guerra, perché le cose andate perdute non le aveva mai avute neanche prima».

 

Ora dunque bisogna fare i conti con la realtà, per quella che è e non per quella che vorremmo che fosse. Il giornalismo avrà l’occasione di riprendersi un po’ di credibilità non lasciandosi coprire solo dalle esigenze della propaganda (ci sono anche quelle, per carità...); la politica invece avrà l’occasione di trovare la nitidezza d’immagine per arrivare all’imprenscindibile tavolo di mediazione. Vale oggi per il conflitto in Ucraina, domani per quello a Gaza. Sperando che, in Europa, non si riapra (come dicevamo) il fronte dei Balcani. Commettere gli stessi errori di incasellamento all’interno della Ue e della Nato senza capire i contraccolpi rischierebbe un pericolosissimo allargamento del fronte bellico. 

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