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Raul Gardini, la vera storia del "Corsaro" tra scommesse azzardate e faide familiari

Luigi Bisignani
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Caro direttore, un popolo di santi, eroi, poeti e naviganti. Mai come in questi giorni queste parole sono state così calzanti nel sentire la narrazione di una certa stampa e Tv su Raul Gardini, in occasione dei 30 anni dalla morte del manager ravvenate. Non è stata da meno la Rai, con l’apologetico docufilm «Raul Gardini» - andato in onda il 23 luglio - nel rappresentare la vicenda umana e professionale del «Corsaro», così soprannominato per le sue scorribande in borsa. Un protagonista temerario e certamente con idee innovative, ma anche uno spericolato «gambler» con il gusto dell’azzardo che è riuscito a distruggere uno dei più grandi player agro-industriali al mondo nello spazio di pochi mesi.

Anche nella tv di Stato la vicenda viene fatta passare per una faida di famiglia, una sorta di Dynasty «acchiappa audience» che, peraltro, proprio sul terreno degli ascolti è stata un flop. Mentre il Gruppo Ferruzzi era in realtà il progetto di una vita del patriarca Serafino, lui sì visionario e all’avanguardia, che si era sempre tenuto ben lontano da politica e finanza e che aveva costruito un megapolo integrato con una filiera rigorosamente “homemade” di trasporti, logistica, stoccaggio. Solo per dare qualche numero, parliamo di circa 170 chiatte da 1.000 tonnellate per il trasporto fluviale, di una flotta di 16 navi per 752mila tonnellate di carico e di enormi stoccaggi in silos giganteschi alla foce del Mississippi. Tant’è che alla Borsa di Chicago, come si fa con i «grandi», quando entrava il cavalier Ferruzzi, veniva suonata la campanella. Il patrimonio di Serafino Ferruzzi è stata la migliore «dote» in mano a Gardini, utilizzata per l’acquisto non solo della Montedison, ma di tante altre realtà come Central Soia, Koipe, Carapelli ed anche per la celebrata avventura de Il Moro di Venezia.

Tornando al docufilm, bastano i primi minuti per capire la follia dello storytelling celebrativo a senso unico non appena, al bravo Bentivoglio/Gardini, mettono in bocca una falsità storica: gli fanno dire che non si sa chi sia più ricco tra suo padre Ivan e Serafino Ferruzzi. La verità è che da una parte abbiamo Ivan Gardini, un piccolo imprenditore che aveva come microcosmo Ferrara, una famiglia che coltivava pesche e, quale attività complementare, quella del «sabiunat», ovvero dragava il fiume per raccogliere la sabbia. Dall’altra parte abbiamo Serafino Ferruzzi, una leggenda che per orizzonte aveva il mondo intero e con una liquidità in tasca di migliaia di miliardi di lire. La «pietas» per il tragico destino di Gardini non deve però farci dimenticare la verità e dunque la sua distruttiva arroganza. E questa volta chi postula «ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità» resterà deluso perché un’altra verità sta emergendo da una domanda spontanea: perché, dopo tutto questo tempo, si continua a rappresentare epicamente la storia di Gardini, oramai smentita da carte e testimoni, come quella di un eroe senza macchia e peccato?
Le risposte possono essere molteplici: forse per evitare di parlare del ruolo nefasto e malefico di Mediobanca e di alcuni poteri forti che contribuirono in modo sostanziale a spolpare il gruppo Ferruzzi a beneficio della Fiat.

O, più semplicemente, per spostare l’attenzione nei giorni tragici di Mani Pulite su partiti come il Pci e personaggi finiti nel mirino della magistratura, come gli Agnelli, i De Benedetti e i Falck, sfruttando e approfittando, con un grimaldello perfetto quale era il carattere impetuoso di Gardini, delle divisioni nella famiglia di Ravenna. O, forse, anche per evitare di aprire uno squarcio in seno alla stessa Procura di Milano, che aveva bisogno di «crocifiggere» Sergio Cusani e i Ferruzzi per lavarsi la coscienza dai suicidi dei vari Castellari, Moroni, Cagliari e dello stesso Gardini, portando così avanti la tesi della corruzione nella vicenda Enimont. Ricostruzioni e verità giudiziarie che tuttavia non sempre collimano con le verità reali. Più che una corruzione sta diventando palese che si trattò dell’ennesimo sciagurato finanziamento illecito ai partiti - un habitus a quei tempi di tutti i grandi gruppi industriali - per mettere fine alla guerra personale che Gardini aveva dichiarato alla politica, lanciando in campo provocazioni di ogni genere.

Leggendaria fu quella di mandare sotto la casa del ministro dell’epoca delle partecipazioni statali, Carlo Fracanzani, truppe cammellate urlanti «la chimica sono io». Oppure, ed è un mio ricordo personale ancora vivo, quando accompagnai il dottor Gardini dal presidente Andreotti per perorare un beneficio fiscale osteggiato da parte della sinistra Dc e dal Pci. Gardini spiegò le sue ragioni in maniera entusiasmante ma uscendo, con un ghigno arrogante dei suoi, si congedò dicendo testualmente «Se non me lo accordate, io i soldi me li faccio dare dai francesi». Il Divo, allora, commentò sagacemente: «Questo è matto, che se li facesse dare dai francesi, cosa è venuto a fare». Enimont durò neanche due anni. Nel ‘90 Montedison cedette il settore «chimica» all’Eni anche perché tutto il mondo politico voleva Gardini fuori per favorire quello che veniva definito il partito degli appalti e degli appaltatori all’ombra del cane a sei zampe. Vennero pagati 2.800 miliardi di lire per costringere Gardini alla resa. Ma potevano essere anche di più, come sosteneva all’epoca l’imperituro Franco Bernabè, in forza all’Eni e incaricato di una valutazione, pur di cacciare il «Contadino».

Gardini, affogato nel suo ego, era rimasto quello spregiudicato giocatore di poker che Serafino mal sopportava. Spesso i geni sono incontenibili nelle loro pretese e gesta, ma comunque i fratelli Ferruzzi, Arturo, Alessandra e Franca gli accordarono fiducia, supporto e sostegno. Tuttavia, riguardo a Enimont, certamente la vicenda più mediatica, la famiglia ha sempre affermato che la decisione della vendita della quota della società a Eni fu presa dal solo Raul, in totale autonomia e comunicata solo a cose fatte ai familiari i quali, basiti di fronte a tanta prepotenza, gli chiesero invano spiegazioni, così come avvenne per l’acquisto a debito della Montedison, portando ovviamente in garanzia il patrimonio Ferruzzi. Gardini non si smentiva mai e aveva manie di grandezza, anche perché il suo sogno nascosto era quello di diventare il nuovo Gianni Agnelli.

Solo una volta è venuto meno a sé stesso, solleticato nell’ego ipertrofico da quel venditore di sogni di Silvio Berlusconi, che ben sapeva interpretare i suoi interlocutori. L’occasione fu l’acquisto della Standa, che Gardini aveva giurato di non vendere mai e invece... Berlusconi si recò in pellegrinaggio a Ravenna e, giunto sulla soglia d’ingresso della villa di Gardini, si inginocchiò in stile Wojtyla. Davanti a quel gesto, Gardini rimase esterrefatto e così Silvio cominciò ad incantarlo, rimarcando che loro due erano gli unici indipendenti: «Abbiamo figli giovani. Abbiamo tutti contro. Ci vogliono far litigare. Ci scatenano contro i loro giornali». E così si prese la Standa. La lucida follia di Gardini raggiunse il suo apice quando pretese di mettere come presidente della Ferruzzi Finanziaria, la cassaforte del Gruppo il giovane figlio Ivan, in un consiglio di amministrazione dove sedevano, tra gli altri, giganti come Giuseppe Garofano, Italo Trapasso, Renato Picco e Sergio Cragnotti. Un bravo ragazzo che, nonostante l’aiuto del comandante generale dei Carabinieri, non riuscì neanche ad essere ammesso nell’Arma.

La conseguenza per la gloriosa «Ferruzzi Finanziaria» è che quel Cda divenne una farsa come l’Enrico IV di Pirandello, dove ogni consigliere doveva leggere un foglio pre-compilato in modo che il rampollo, fatto re, non facesse brutta figura. Fu l’inizio della fine per Raul, che voleva cancellare la Ferruzzi per farla diventare la Gardini. Voleva condizionare e tenere sotto controllo ogni cosa, anche la vita dei suoi collaboratori. Non gli piaceva, ad esempio, la moglie di Sergio Cragnotti, la Signora Flora, che poi si è dimostrata una donna eccezionale. E così architettò di creare le condizioni per il loro divorzio. Aveva addirittura scelto la futura compagna di Cragnotti: l’attrice e modella Marisa Berenson, che peraltro non aveva mai conosciuto. Nel «Colosseo Ferruzzi», come un imperatore romano, Raul voleva avere potere di vita e di morte, anche in nome di tutti gli eredi, perfino dei piccoli in arrivo come il bimbo di Alessandra, la più tenace dei figli di Serafino, l’unica che aveva compreso la fatale deriva verso cui stava trascinando il Gruppo. La debolezza della famiglia sotto scacco di Gardini, portò ad un certo punto alla decisione di liquidare il Contadino con 500 miliardi di lire. E da lì a poco entrò maleficamente in campo la Mediobanca di Cuccia che non permise alla famiglia Ferruzzi di farsi assistere dalla Goldman Sachs di Claudio Costamagna - che al contrario apprezzava il piano di risanamento portato avanti da Arturo Ferruzzi e Carlo Sama per poterla così spingere nell’abisso. Decisamente una storia tristissima per il capitalismo italiano. Ed è struggente l’ultima frase della prima lunga “intervista-verità” che ha rilasciato poche settimane fa Alessandra Ferruzzi, ricordando anche Gardini. Due sole parole eloquenti: «Scusa papà».

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