post pandemia
Covid, la ricetta di Palù (Aifa) per la sanità: "Dati sanitari sulla carta d'identità"
Giorgio Palù, professore emerito di Virologia all'Università di Padova e presidente dell'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, ritiene che sia arrivato il momento per mettere in pratica le lezioni che la pandemia ci ha dato: «Il primo passo è riorganizzare il sistema sanitario sulla qualità più che sulla quantità».
Presidente, da dove dobbiamo partire in questa impresa che non sembra così facile?
«Per ottenere una maggiore efficienza io partirei dalla base: sanità territoriale e medici di medicina generale. Serve una maggiore sinergia tra territorio e ospedale. Abbiamo accumulato un ritardo notevole nella realizzazione di progetti considerati strategici per il Paese; vedi ad esempio il fascicolo sanitario elettronico. Sono tra coloro che hanno accolto bene l'annuncio del governo di semplificare l'identità del cittadino in un unico documento come la carta di identità elettronica (Cie). L'auspicio è che nell'immediato futuro si possa, attraverso la Cie, aggregare e accedere a tutte le informazioni sanitarie dei singoli pazienti rendendole interoperabili su tutto il territorio nazionale».
Uno dei problemi però è la carenza di medici.
«È vero che negli ultimi dieci anni sono stati chiusi in Italia 110 ospedali e 13 pronto soccorso. Nei prossimi anni ci sarà una carenza di circa 30mila medici, di cui più di 20mila sono ospedalieri specialisti, mentre quattromila sono di medicina generale. Ma dobbiamo ricordare pure che abbiamo 45mila medici di medicina generale, quasi uno ogni mille abitanti. Anche se molti andranno in pensione, resteranno, rispetto agli abitanti, sempre più di quelli di Germania, Francia e Regno Unito».
Allora perché non sono sufficienti?
«Sono appesantiti dai troppi adempimenti burocratici e non sono più in grado di visitare l'ammalato. Quando vedono un soggetto complicato lo mandano al pronto soccorso. Perciò insisto sulla qualità».
Cosa intende?
«Iniziamo togliendo ai medici di base le molte pastoie burocratiche. Si può fare col fascicolo digitale sanitario, ma si può fare anche intervenendo sulle case di comunità, se queste diventeranno delle "surgeries", con strumentazioni diagnostiche, frequentate anche da specialisti, in grado di consentire al medico di medicina generale di discernere chi necessita di pronto soccorso e chi curare a casa. Proprio ciò che è mancato nella pandemia. Poi dobbiamo parlare della formazione».
I medici non sono formati a sufficienza?
«Oggi un medico di medicina generale si forma in tre anni frequentando studi medici sul territorio e seguendo corsi non universitari dispensati dalle regioni. Sarebbe opportuno che l'Università si facesse carico del percorso formativo del medico soprattutto per la parte di aggiornamento scientifico tecnologico. L'esame di Stato andrebbe ripensato sul modello di quello americano molto più selettivo che da noi. Da anni si parla poi di una riorganizzazione della facoltà di Medicina su modelli ben collaudati come sono gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, gli Irccs, i quali hanno standard nazionali di alto profilo e meccanismi competitivi di premialità. Ma la qualità si coniuga anche con una migliore remunerazione».
Quindi il problema non è la carenza di organico?
«Mancano in particolare gli specialisti. È pur vero che le circa 11.000 borse di studio per specializzandi sono arrivate a superare il numero di laureati all'anno ma scontiamo un ritardo di programmazione. Abbiamo oltre 50 sedi di scuole di medicina in Italia contro le 30 della Germania. Non è quindi solo su una maggior quantità di laureati (circa 10.000 l'anno) che dovremmo puntare ma sulla qualità e l'attrattività: alti standard di formazione, ricerca, strutture scientifiche di ricovero e cura. Dall'80% al 50% delle borse di scuole di specializzazione in medicina di laboratorio, microbiologia, anestesia, chirurgia generale, medicina d'urgenza non vengono assegnate per mancata incentivazione: i neolaureati non si iscrivono a causa della scarsa gratificazione economica e professionale, elevati carichi di lavoro e rischi connessi alle attività specialistiche quali denunce e rivendicazioni giudiziarie da parte dei pazienti».
All'estero stanno meglio?
«Un'indagine recente del Guardian ha evidenziato che la crisi del reclutamento non avviene solo in Italia. In Francia si parla di sei milioni di persone che non avranno un medico di medicina generale. In Spagna ci sono 700mila persone in attesa d'intervento chirurgico. È una crisi generalizzata».
A che punto è l'hub vaccinale e di ricerca, quel centro nazionale anti-pandemico che dovrebbe farci fare il salto di qualità?
«L'accordo tra ministero della Salute, Mur, Mise e Mef favorito dal Pnrr ha dato avvio a questo polo biotecnologico che dovrebbe sviluppare farmaci innovativi, nuovi vaccini e diagnostici, per renderci meno dipendenti dall'estero nell'ambito delle innovazioni tecnologiche. Si chiama Biotecnopolo e la sede è stata individuata a Siena. Si relazionerà non solo con i ministeri di riferimento ma anche con gli Irccs, l'Iss e l'Aifa per quanto riguarda la validazione dei nuovi farmaci. Ma dovrà attrarre anche venture capital, spin off e start up».
Quando sarà operativo?
«È già stato istituito il consiglio di amministrazione e il comitato tecnico scientifico. Il Biotecnopolo ha già un direttore scientifico, quindi dovrebbe prendere il via quanto prima».
Nei giorni scorsi alcuni medici hanno contestato la sua dichiarazione secondo cui la pandemia è finita. Cosa risponde?
«È inutile dar seguito a polemisti di professione. Non ho mai detto che la pandemia sia finita, ho detto che come accezione semantica basata su una datata tradizione virologica si dovrebbe parlare di pandemia riferendoci alla fase iniziale del Covid-19, quando circolava un agente del tutto nuovo e la popolazione era completamente scoperta dal punto di vista immunitario e non c'erano né farmaci né vaccini. Ormai è un anno abbondante che circolano Omicron e le sue sottovarianti. Ho solo voluto sollevare quel velo di allarmismo che è intrinseco al termine pandemia».
Quale termine è giusto utilizzare allora per la situazione attuale?
«Abbiamo difronte una malattia infettiva con circolazione ancora molto diffusa di SARS-CoV-2 che solo in questo senso può dirsi pandemico (pan demos) in quanto non ancora stagionale o responsabile di manifestazioni limitate nel tempo, nello spazio e a carico esclusivo di alcune popolazioni. Il virus è con noi da oltre tre anni (un tempo di anomala durata rispetto alle pandemie influenzali conosciute) ed è destinato a rimanere con noi come i coronavirus del raffreddore; ma ora lo conosciamo bene e sappiamo come affrontarlo».
Al momento i richiami del vaccino sono raccomandati solo per gli over 60. Gli altri non dovranno più vaccinarsi?
«Presto per dirlo. Va innanzitutto completato il ciclo vaccinale con i due richiami. Purtroppo la quarta dose, cioè il secondo richiamo a distanza di almeno 4 mesi dal primo, è stata effettuata solo da una parte limitata della popolazione. Una quinta dose è raccomandata da Ema, Aifa e MdS per i soggetti immunodepressi».
Le regole sull'isolamento verranno cambiate?
«Spagna e Regno Unito, due Paesi con un sistema politico diverso, lo hanno già fatto. Quello che è paradossale è che le sta cambiando anche la Cina che aveva professato quasi a livello ideologico il "Covid zero". Adesso ha smesso di fare i tamponi (credo che toccherà farli noi ai cinesi che arrivano in Italia), manda i soggetti positivi al lavoro, i medici positivi addirittura in corsia. Qui da noi, in Italia, il ministero della Salute sta per andare nella stessa direzione di altri Paesi europei: chi ha avuto il Covid e non ha più sintomi potrà uscire senza fare il tampone, a patto di indossare la mascherina e di stare attento a proteggere i più fragili e gli anziani. È bene dirlo con chiarezza: la politica del Covid zero non esiste, ha fallito».
La recente riforma dell'Aifa è stata criticata da più parti. Il Pd la ritiene sbagliata.
«È partita in Parlamento, da più forze politiche. È una riforma che ammoderna un'agenzia ministeriale che svolge un ruolo estremamente importante per il Paese in quanto collabora direttamente con Ema, sovrintende alla produzione di farmaci e vaccini concedendo licenze alle officine farmaceutiche che ispeziona regolarmente; Aifa inoltre si occupa dell'immissione in commercio di tutti i farmaci e di note prescrittive, regola la ricerca in ambito farmaceutico, dispensa finanziamenti per ricerca clinica finalizzata. La riforma votata dal Parlamento ha nettamente potenziato, a mio avviso e quindi migliorato, le funzioni gestionali istituendo due figure direttoriali una a vocazione prettamente amministrativa e l'altra scientifica. Aifa aveva bisogno di essere snellita nelle sue funzioni burocratiche. Dotare Aifa di un'unica commissione scientifico-farmaco-economica di elevato profilo è un grande passo avanti nell'indirizzare la ricerca biotecnologica e farmaceutica».