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“Se c'è un'avaria buttateli a mare”. Il business sulla pelle dei migranti

Christian Campigli
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Trafficanti di esseri umani. Pronti a tutto, pur di guadagnare milioni di euro. Anche ad uccidere, se necessario. L'ennesima dimostrazione che gli scafisti non sono neppur lontanamente le anime pie, i benefattori in grado di salvare le vite delle migliaia di Africani desiderosi di sbarcare in Europa, è giunta ieri dall'inchiesta della polizia di Caltanissetta. L'operazione denominata «Mare Aperto» ha sgominato un'intera banda e portato all'esecuzione di diciotto misure cautelari per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Si tratta, nello specifico, di undici tunisini e sette italiani. Ma l'aspetto più agghiacciante dell'intera vicenda, quello in grado di far gelare il sangue, è rappresentato dal testo di un'intercettazione tra due malviventi. Se ci fossero stati problemi, come un'avaria al motore, gli scafisti avrebbero potuto «sbarazzarsi dei migranti in alto mare». Parole indegne di un essere umano, con buona pace di Roberto Saviano, Michela Murgia e Laura Boldrini. Sei dei diciotto destinatari del provvedimento del giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta sono ancora irreperibili, probabilmente all'estero. Un indagato è stato individuato a Ferrara, grazie alla collaborazione della squadra mobile della città emiliana, uno era già in carcere per reati analoghi, un terzo, un tunisino, scarcerato da pochi giorni, era nel Cpr di «Ponte Galeria» a Roma, in attesa di essere rimpatriato. Gli altri sono stati arrestati in Sicilia: otto a Caltanissetta e una a Ragusa.

 

 

Un'indagine partita quasi due anni fa, nel febbraio 2021 per la precisione, quando all'imbocco del porto di Gela si era incagliata un natante in vetroresina di dieci metri, con due motori da duecento cavalli. Si trattava di un'imbarcazione rubata a Catania pochi giorni prima e dalla quale erano sbarcate decine di persone. La polizia è riuscita così a risalire a una coppia di tunisini che, secondo la tesi accusatoria, avrebbe favorito l'ingresso irregolare sul territorio italiano di uomini e donne africani. Il capo della banda sarebbe un imprenditore agricolo di Niscemi, che aveva messo a disposizione la base operativa in una masseria del luogo, in cui c'è anche un campo di volo privato. L'imprenditore aveva assunto uno dei tunisini come bracciante agricolo per fargli eludere gli arresti domiciliari e ottenere la concessione di appositi permessi. Contestata anche la circostanza aggravante di aver messo in serio pericolo di vita i migranti e di averli sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. I trafficanti di esseri umani avrebbero trasportato dalle dieci alle trenta persone alla volta.

 

 

Indifferenti di fronte all'enorme pericolo al quale stavano esponendo gli immigrati. Il prezzo a persona, pagato in contanti in Tunisia prima della partenza, si sarebbe aggirato tra i tremila e i cinquemila euro e il presunto profitto dell'organizzazione criminale, secondo stime investigative, si attesterebbe tra i trentamila e i settantamila euro per ogni singolo viaggio. Numeri che, ancora una volta, dimostrano come difendere i confini italiani, chiudere i porti agli scafisti, significhi salvare vite umane. Messe al contrario a repentaglio da trafficanti di esseri umani senza scrupoli.

 

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