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Italiani sempre più tartassati: anno record per le tasse, tra i peggiori in Europa

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Pietro De Leo
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Pressione fiscale e oneri burocratici connessi al pagamento delle tasse sono una zavorra per le imprese. Uno studio della Cgia, diffuso ieri, ha messo nero su bianco alcuni numeri. Innanzitutto: cattive notizie sul tema pressione fiscale, che tocca quota 43,8% del Pil, un vero e proprio record storico. Però c'è da fare un distinguo: questa punta non viene raggiunta a causa di un aumento delle tasse su famiglie ed imprese, ma piuttosto per l'evoluzione del contesto congiunturale. Il primo elemento, a questo proposito, è la crescita dell'inflazione, con il conseguente rialzo delle imposte indirette (a questo proposito, per esempio, rileva l'extragettito Iva di 13 miliardi calcolato dal Mef per i primi sette mesi di quest' anno). Poi c'è il miglioramento economico e dell'occupazione, registrato nella prima parte di quest'anno, che ha avuto come conseguenza la crescita delle imposte dirette. Altro elemento: molte delle proroghe e sospensioni dei versamenti tributari in essere nel 2020-2021 sono venute meno. Altro tema, l'assegno unico, entrato in luogo delle detrazioni per i figli a carico. Dunque, se queste ultime riducevano il gettito Irpef, ora con il loro superamento vi è un aumento di gettito di 8,2 miliardi di euro. In termini assoluti, si registra quindi un aumento delle entrate fiscali pari a 37 miliardi di euro rispetto al 2022.

 

 

Ma come ci collochiamo rispetto agli altri Paesi? Nell'Ue a 27, con dati riferiti al 2021, l'Italia si collocava al quinto posto. Medaglia d'oro di questa infelice classifica spetta alla Danimarca (49% del Pil), poi Francia (47%), a seguire Belgio (45,4%) e Austria (43,6%). Meglio di noi fanno la Germania (43,2) e la Spagna (38,8%). Irraggiungibile appare l'Irlanda (21,7%). E poi c'è un altro aspetto che si aggancia al tema tasse, ovvero la complessità dell'iter burocratico cui occorre assolvere per poterle pagare. Anche qui, l'Italia non è messa benissimo. Sempre il rapporto Cgia indica infatti che gli imprenditori italiani perdono 30 giorni l'anno (pari a 238 ore). In Francia ne servono 17 (139 ore), in Spagna 18 (143 ore) e in Germania 27 (218 ore). La media in area euro è di 18 giorni (147 ore).

 

 

Ciò viene calcolato prendendo a parametro una media impresa di 60 addetti al secondo anno di vita. Questo è un vero primato negativo, che ci richiama al recente discorso di insediamento pronunciato dal premier Meloni alle Camere. Un passaggio molto «reaganiano» aveva infatti messo in evidenza la necessità di dover allentare la morsa dello Stato su chi «vuol fare». Dunque, semplificazione è la parola chiave, che riguarda non soltanto gli oneri fiscali, ma anche tutti gli iter autorizzativi che, purtroppo, scoraggiano chi vuol fare impresa. Un altro studio, della Cna, aveva calcolato tempo fa il complesso delle autorizzazioni necessarie per poter avviare un'attività: per un salone da parrucchiere ne servono 65, per un bar ne servono 71, che lievitano a 86 per un'officina di autoriparatore. Un ginepraio di scartoffie ed adempimenti spesso costoso, che frena l'autoimprenditorialità.

 

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