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Il presidente dell'Aifa Giorgio Palù: un grande hub per farmaci e vaccini. Così l'Italia sarà autonoma

Dario Martini

«L’Italia è uno dei paesi sviluppati che investe meno in ricerca. Sicuramente meno di Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Per non parlare di Cina e Giappone». Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, parte da qui per spiegare quanto siamo indietro nell’intercettare le sfide che il futuro ci pone di fronte. Soprattutto nel settore della biomedicina. Il principale virologo italiano è l’interlocutore migliore per comprendere quanto il nostro paese abbia tratto o meno insegnamento da questi anni di pandemia.
Presidente Palù, iniziamo proprio da qui. Cosa abbiamo capito grazie a questo virus?
«La pandemia ci ha insegnato che servono meno "virologi" in televisione. È necessaria una policy della comunicazione scientifica come quella inglese. La comunicazione deve essere sempre istituzionale, anche veicolata da persone terze in forma autonoma e obiettiva. Deve però trattarsi di veri esperti che riportino i dati senza commenti o spettacolarizzazione. Penso agli "science communicator" di matrice anglosassone che da noi latitano ancora, fatta qualche eccezione: Piero Angela, Luciano Onder, Bruno Vespa e pochi altri. Ma un altro è l’aspetto fondamentale».
Quale?
«L’importanza della ricerca. La virologia, e lo dico da soggetto interessato, nell’ambito della biomedica è una delle discipline che è stata maggiormente caratterizzata da vincitori di premi Nobel. Oggi, in Italia, in molti vengono accreditati come virologi solo perché c’è il Covid. In realtà nel nostro Paese la virologia è quasi scomparsa: non ci sono più primariati, cattedre, dipartimenti né istituti. I virus sono una spia dell’ambiente e della convivenza uomo-animale».
Quanto si investe in ricerca in Italia?
«Le do un po’ di numeri aggiornati al 2021 su quanto si investe in ricerca e sviluppo nel nostro paese: l’1,4% del Pil. Superiamo dello 0,1% solo la Spagna. Sto parlando di ricerca in generale, non solo di ricerca biomedica. In Germania investono il 3,2%, la media Ocse è il 2,5, in Francia il 2,2, la media Ue il 2,1. E non parliamo di Stati Uniti, Cina e Giappone. Lì gli investimenti in ricerca superano nettamente il 5% del Pil».
Quanti ricercatori abbiamo in Italia?
«La media europea è di 8,9 ricercatori per mille occupati. Noi ne abbiamo 6,3. La Francia 11, la Germania 10, l’Ocse 8,9. I ricercatori italiani sono 222mila, contro i 667mila della Germania. Noi siamo quelli che abbiamo la maggior percentuale di femmine sui maschi. Non per giustizia di genere. Ma perché i ricercatori meno pagati sono quelli italiani. Quindi i nostri vanno all’estero e in Italia sono le donne che rimangono di più».
E quanto investiamo in formazione?
«I nostri dottori di ricerca sono al di sotto della media europea. Ne contiamo 0,6 ogni mille abitanti, contro la media europea di 0,8. La Svizzera ne ha quasi 2. Inoltre abbiamo il minor numero di studenti di dottorato stranieri. Significa che non siamo attrattivi».
Dunque è tutto da buttare?
«No, c’è anche il bicchiere mezzo pieno. La scienza che fanno gli italiani ha una qualità molto elevata. Mi riferisco alle pubblicazioni che sono tra le più citate. Abbiamo una qualità scientifica più alta della Germania seppure con meno ricercatori. Però molti dei nostri giovani migliori si stanno trasferendo all’estero».
Qual è la destinazione principale?
«Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti».
In cosa siamo carenti?
«Oggi abbiamo un’ottima qualità grazie ad una spiccata propensione individuale al pensiero speculativo, dote che si commuta molto poco in brevetti, in nuove realtà d’impresa e in start up. Siamo tra gli ultimi Paesi a livello di sfruttamento della proprietà intellettuale perché abbiamo scarsi finanziamenti, non siamo attrattivi. Sa cosa ci vuole per tradurre una scoperta in una realtà d’impresa?».
Cosa?
«Ci vogliono business angels (investitori che offrono capitale a nuovi progetti d’impresa, ndr), venture capital, merchant banks che favoriscano l’accesso diretto al mercato azionario, come in America. Uno si quota in borsa non perché ha una fabbrica e dei dipendenti ma perché ha un’idea. L’idea è il capitale. La scienza, soprattutto in biomedicina, deve avere una ricaduta concreta ed economica».
Qual è lo stato dell’arte?
«Virologia, immunologia, biologia molecolare, genomica, terapie avanzate del cancro e delle malattie degenerative, sono la rivoluzione più grande che c’è stata dopo la fisica dai primi del ’900 al bosone di Higgs. Oggi disponiamo di terapie disegnate sul singolo paziente, di una medicina rigenerativa basata su cellule staminali autologhe pluripotenti, di forbici molecolari in grado di correggere con precisione singoli difetti genici, di cellule del nostro sistema immunitario istruite a rigettare i tumori. Questo è il vero boom: le biotecnologie in medicina. Ma bisogna "realizzare" tutto ciò sotto forma di farmaci disegnati razionalmente via intelligenza artificiale, devices per il loro rilascio e il monitoraggio di funzioni vitali, vettori virali per terapia genica; si tratta di creare nuovi strumenti terapeutici e diagnostici ad elevatissimo contenuto tecnologico garantendo al ricercatore la proprietà intellettuale delle scoperte e la loro valorizzazione economica. Tutte cose che da noi, ahimè, si vedono ancora poco».
Dove vengono realizzate le nostre idee?
«Largamente all’estero. La nostra industria farmaceutica è prima in Europa con 34 miliardi di fatturato. Quattro miliardi di bilancio positivo su importazioni ed esportazioni, 95% di export. Il saldo attivo è pari 4,4 miliardi. Ha 67mila addetti. Tre miliardi investiti in ricerca e sviluppo. Però il core business è la lavorazione conto terzi con produzione di farmaci generici di cui è scaduto il brevetto. Facciamo poca innovazione di prodotto in ambito biotecnologico concentrandoci su innovazione di processo. Da noi c’è troppa burocrazia nel concedere i già esigui finanziamenti. La rivoluzione della biomedicina punta sulla commutazione rapida della scoperta di un meccanismo di malattia in un prodotto innovativo».
Durante la pandemia si è vista questa mancanza?
«Certo, siamo l’unico paese in Europa che non ha un vaccino né un farmaco antivirale, quando un vaccino anti-Covid ce l’ha anche la Spagna».
Tutto ciò ha una radice culturale?
«Penso di sì. Io la trovo in una tradizione ideologico-culturale che vede lo sfruttamento economico del proprio talento ideativo o imprenditoriale come una colpa sociale. Diciamo che negli Usa e nel resto dell’Europa prevale una cultura che viene dalla riforma calvinista. Il guadagno generato dal lavoro e dall’intelligenza non è considerato un peccato ma un dono del buon Dio. Ma c’è un altro Paese che ci fa ancora più concorrenza».
Quale?
«La Cina. Ha preso tutti i migliori ricercatori cinesi che erano negli Usa incentivandoli a ricoprire posizioni di prestigio in patria. Ha capito l’importanza di investire in strutture tecnologiche avanzate e in scienza di base. Chi si occupa solo di ricerca applicata non scoprirà mai un meccanismo fondamentale. In biomedicina è cruciale finanziare la ricerca di base. I cinesi non hanno una burocrazia tentacolare come la nostra, non ci sono centinaia di comitati etici, non è comune indulgere nel politically correct».
Ha parlato della Cina. Il virus del Covid è il frutto di un incidente di laboratorio?
«Con buona probabilità sì, ma le autorità cinesi sono molto reticenti nel dare spiegazioni. Zhengli Shi (virologa cinese, ndr) coltivava i coronavirus del pipistrello incluso RaTG13, il precursore di SARS-CoV-2, da una decina d’anni».
Come può un virus uscire da un laboratorio?
«È già successo per diversi virus e agenti altamente patogeni, anche dai laboratori americani e non con scopi intenzionalmente malevoli ma semplicemente per disattenzione o poca cura nel rispettare le regole di biosicurezza. A Wuhan hanno un laboratorio BSL-4 (il livello di biosicurezza più alto, ndr) costruito anche con finanziamenti francesi dell’Institut Pasteur (che ha l’Insitut Pasteur Shanghai e Beijing (Pechino, ndr)), americani (Ecoalliance, NIH e fondazione Bill Gates) e britannici (MRC). A Wuhan si è così concentrata negli ultimi anni grossa parte della ricerca sui coronavirus. Lo scopo, analogamente a quanto già avvenuto nel recente passato (2011) per l’influenza aviaria (H5N1), era probabilmente quello di capire quali mutazioni acquisite in natura fossero necessarie a un coronavirus del pipistrello per fare il salto di specie ed infettare l’uomo. Ero presente nel 2014 all’Accademia Nazionale della Scienze a Washington quando vennero messe al bando tutte le ricerche e soppressi tutti i finanziamenti sulla manipolazione genetica dei virus influenzali (bando sospeso a novembre 2017); ma il provvedimento, inizialmente disposto anche per i coronavirus, venne per questi subito rimosso in quanto detti virus erano sprovvisti di adeguato modello animale e il virus della MERS era ancora in circolazione. Vero è che attualmente abbiamo disponibili molti modelli animali per studiare SARS-CoV-2 e COVID-19: i visoni, il criceto, il topo, il furetto. Oltre al coronavirus pandemico (SARS-CoV-2) siamo attualmente colpiti anche da un altro virus zoonotico, il virus del vaiolo delle scimmie (MPXV), ma dovremo sicuramente affrontare nuove minacce microbiche incombenti all’interfaccia uomo-animale-ambiente. Ai tempi della peste antonina, della peste giustinianea, della peste nera del XIV secolo o delle prime ondate di vaiolo, l’Europa e l’Eurasia contavano pochi milioni di abitanti. L’America non era stata scoperta e quindi nessuno poteva trasmettere il batterio della peste o il variolavirus ai nativi americani. Però divaghiamo. Torniamo alla ricerca biomedica».
Sapremo sfruttare le opportunità che ci offre il Pnrr?
«Le nostre università e strutture di ricerca sanitaria mai come ora saranno inondate di soldi, speriamo di non disperdere questa occasione. In America l’NIH (National Institutes of Health) finanzia anche progetti pilota proposti da giovani ricercatori che nascono su idee apparentemente controcorrente. Negli Usa non esiste il concetto esclusivo di ricerca "top-down", dall’alto al basso. Si genera "bottom-up", dal basso all’alto. Dall’idea in su. E per farlo dovremmo finanziare le idee dei giovani che diventano scoperte innovative o che sovvertono vecchi paradigmi e le scoperte che diventano brevetti».
Come possiamo fare questo salto?
«Il profitto generato su base meritocratica deve diventare il volano di una società libera di creare sviluppo e crescita, altrimenti l’alternativa è quella cinese dell’autarchia e dell’investimento di Stato».
Cosa sta accadendo con il Pnrr?
«Per quanto riguarda l’ambito biomedico gli enti interessati sono il ministero dell’Università e della ricerca (MUR), il ministero della Salute (MdS), il ministero dello Sviluppo (MiSE), il ministero per l’Innovazione e transizione ecologica (MiTE). Il MUR è coinvolto con cinque bandi. Il primo, quello per infrastrutture e ricerca, è già chiuso. Il secondo, l’Itec, per infrastrutture tecnologiche e innovazione, conta 25 ricerche già presentate, di cui 12 sono biomediche. Poi ci sono i Centri nazionali per ricerca e sviluppo, che sono cinque con una dotazione di 1,6 miliardi: riguardano calcolo avanzato, agritech, terapia genica e farmaci basati sull’RNA biodiversità, e mobilità sostenibile. Poi c’è un altro bando sui "Parteneriati estesi" (Pe) che coinvolge università, centri di ricerca e aziende. Anche qui i progetti sono da 1,6 miliardi complessivi. Infine c’è il Pnic, il Piano nazionale investimenti complementari, in ambito sanitario e assistenziale, che contempla robotica, monitoraggio a distanza, data mining e reingegnerizzazione d’impresa».
Sui vaccini cosa si sta facendo?
«C’è un investimento mirato importante che ha per capofila il ministero della Salute assieme a Mise e Mur. Un hub vaccinale per rendere autonoma l’Italia per vaccini e farmaci. Si sta stendendo lo statuto. Riguarda sia la produzione e lo sviluppo industriale che la sorveglianza sul rischio pandemico. In ambito biofarmaceutico il Mise porta avanti il bando IPCEI, progetto europeo con coordinamento francese per dar vita a importanti iniziative di riconversione industriale basate su tecnologie d’avanguardia in ambito biotecnologico. Anche in questo caso molti sono i temi in ambito biomedico: terapia genica, vaccini, anticorpi monoclonali, terapie personalizzate del cancro, terapie per l’invecchiamento e per il cardiovascolare, e l’intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale (IA) applicata alla medicina è una disciplina che ha per obiettivo l’elaborazione di algoritmi predittivi per nuove terapie e approcci diagnostici. L’IA, potrebbe utilmente servire per predire come evolverà il virus e disegnare vaccini e farmaci anti-Covid "su misura". Il bando IPCEI richiede proposte di ricerche per sviluppare prodotti e processi innovativi, basate su tecnologia "oltre lo stato dell’arte". Vi hanno partecipato 120 aziende Italiane. Le aziende vincitrici interagiranno sinergicamente con quelle francesi, spagnole, austriache, ungheresi e tedesche che saranno parimenti diventate aggiudicatarie. In assenza di un coordinamento scientifico e di "pilot grants" (sovvenzioni per progetti pilota), sarà fondamentale avere una sinergia tra i ministeri. L’auspicio oltre a quello di incrementare la qualità della nostra scienza biomedica è anche cambiare il tessuto industriale del Paese, rendendolo competitivo a livello internazionale. Le premesse sono positive: il ministro dell’Università sta cercando di snellire la burocrazia dei concorsi, di incentivare la promozione dei giovani e dei trasferimenti dei docenti. Mur, Mise e Ministero della Salute insieme stanno puntando su ciò che serve al Paese: formare nuove realtà dove industria e ricerca procedano insieme».
Quali saranno i centri d’eccellenza in ambito biomedico?
«In Italia abbiamo l’Human Technopole a Milano che si occuperà di genomica e l’ITT a Genova, che è una specie di MIT americano che si interessa di nanotecnologie e robotica. Poi abbiamo il CNR, che ha largamente contribuito al progetto di infrastrutture ricerca, le Università, gli IRCCS/Aziende Ospedaliere e le industrie farmaceutiche. Sarebbe fondamentale per un rilancio della farmaceutica italiana basata sull’innovazione tecnologica che queste industrie trovassero modo di aggregarsi su specifiche aree tematiche in un grande centro nazionale che interagendo con l’Università e gli altri enti di ricerca, favorisca la formazione di spin-off e newco».