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Da Roma a Bucarest fino in Ucraina: viaggio all'inferno andata e ritorno insieme ai profughi in fuga

Benedetta Frucci (foto Skino Ricci)
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In aereo da Roma fino a Bucarest, poi 5 ore di viaggio verso est, fino a Isaccea, dove le acque del Danubio segnano il confine fra Romania e Ucraina. Ci siamo mischiati fra gli Ucraini che lasciano le loro case per trovare la salvezza in Europa, percorso parte del loro viaggio, raccolto le loro storie. Storie di dolore, guerra, nostalgia. Storie di donne, anziani, bambini, con vite normali, progetti, sogni che la guerra ha interrotto, lasciando solo paura e incertezza. 

 

 

GIORNO 1
Da Bucarest ad Isaccea

Atterrati a Bucarest, noleggiamo una macchina e percorriamo le strade che dalla capitale portano fino al confine. Chilometri e chilometri di campagne, qualche villaggio sperduto, il fumo giallo di una fabbrica, pescatori che vendono ai lati delle strade i loro prodotti. Fino ad Isaccea, un villaggio poverissimo, eppure, pieno di solidarietà, come abbiamo modo di scoprire poco dopo. Al bar del paese incontriamo Andrew, un volontario del New Mexico. È lì dallo scoppio della guerra e, insieme agli abitanti del luogo e alle organizzazioni non governative provenienti da tutta Europa, si dedica all’accoglienza degli ucraini che arrivano al porto.  È da lì, che, superato agevolmente il controllo della polizia di frontiera romena, ci imbarchiamo su una piattaforma diretta in Ucraina.

 

GIORNO 2
Reni, Ucraina

A Reni, nel distretto di Odessa, splende il sole. La piazza brulica degli abitanti locali, la guerra qui non è arrivata e all’apparenza sembra una giornata normale. Un anziano che fuma, donne che comprano il pane, due ragazze che chiacchierano sulla porta di un negozio. Parliamo un po’ con loro: «I russi arriveranno», ci dice Ina rassegnata.
Un bambino stringe con fierezza il suo fucile giocattolo: «I nostri soldati sono i suoi eroi, vuole essere come loro», ci dice suo padre. In fondo, la guerra è anche qui, dove non si sentono gli spari.

Vorremmo parlare ancora con loro, ma una macchina si ferma, abbassa il finestrino e dice qualcosa in ucraino. Il padre e il bambino si allontanano senza dire una parola. Ina ci spiega che hanno paura dell’arrivo dei russi e quindi, meglio non dare confidenza agli stranieri, non sai mai chi possano essere. Ci allontaniamo da Reni e un checkpoint di soldati è il nostro bagno di realtà.  Controllano le auto e indicano a chi scappa la via più veloce per raggiungere il Danubio e da lì, la piattaforma che li porterà in Romania. Uno di loro parla benissimo inglese, ci incuriosiamo. Ci racconta che è appena rientrato dal Canada per combattere per il suo Paese. È uno di quei 320 mila cittadini ucraini residenti all’estero che sono rientrati a Kiev per arruolarsi.

Superato da poco il checkpoint, un’ampia strada circondata da campi di grano, ci ricorda come mai l’Ucraina sia definita il granaio d’Europa. Ed eccole le auto incolonnate e gruppi di persone che si muovono a piedi, arrivate con gli autobus o con i treni. 

 

LA FRONTIERA
Alla frontiera il traffico scorre lentamente. Davanti a noi, una vecchia auto d’epoca sovietica, piena di tutto ciò che i due anziani proprietari sono riusciti a portare via dalla loro casa di Odessa. Un’icona sacra spunta dal sedile posteriore. È come se scappando, avessero provato a portare via anche la loro identità. 

Arriviamo alla dogana. I controlli sono estenuanti: passaporti, auto, niente è lasciato al caso. Ci dirigiamo negli uffici per acquistare il biglietto della nave. Un poliziotto ci aiuta ad impostare la macchinetta in inglese. «Potete scegliere di donare il resto all’esercito», ci spiega. Tutto, ormai, è funzionale alla guerra.

Incrociamo lo sguardo fiero di Palina. Gioca con la sua piccola Olha, che ride felice, ignara di ciò che sta accadendo intorno a lei. Viene da Kiev, ha viaggiato per due giorni. Non poteva più restare sotto le bombe. Per 3 settimane, ha dormito con sua figlia nella metropolitana. Ora sono dirette a Bucarest e da lì in Bulgaria, dove non sa quanto resteranno: «Ho delle amiche lì, mi dicono che almeno per un mese potrò dormire gratis in hotel», spiega.

 

ATTRAVERSANDO IL DANUBIO
Dopo ore di attesa, saliamo sulla piattaforma, con il sole che accarezza i volti stanchi degli esuli. Dal finestrino di un suv nero irrompono gli occhi colmi di lacrime di una elegante signora, preside di una scuola di Kherson. Poco più in là c’è Viktoria, che gestiva un bed&breakfast a Odessa e adesso è in fuga verso il Canada, dove la aspetta la figlia. «I saloni di bellezza sono ancora aperti lì, ma le farmacie sono vuote. Ci servono farmaci, scrivilo quando tornerai in Italia», mi fa promettere. E io lo scrivo, Viktoria. 

Gli Ucraini sulla nave guardano verso la loro terra. Qualcuno è stanco, provato e silenzioso. Altri scattano foto, come se pensassero di non poter più tornare. Una ragazza è seduta per terra, lo sguardo perso verso la sponda romena del fiume. Ha lasciato Kiev il giorno prima, preso un autobus fino ad Izmail e poi un passaggio di fortuna l’ha portata fino al confine. «Dopo aver sentito le bombe, non ho più paura di nulla», mi dice. Ha solo 18 anni, Vladyslava, studia marketing all’università, il suo progetto è quello di continuare a seguire le lezioni online e per ora, restare in Romania dal suo ragazzo. 

ISACCEA, ROMANIA
]Sono passate ore da quando ci siamo messi in fila per imbarcarci per la Romania e finalmente, dopo il breve viaggio via fiume, tocchiamo terra. All’approdo, Croce Rossa, pompieri e gruppi di volontari romeni offrono cibo e acqua. Fra loro ci sono Ares, 19 anni, nato in Calabria. E la piccola Naomi, 14 anni, che è lì per regalare giochi ai bambini che arrivano. Il sole sta calando.

Ma l’esodo non è finito. Sul confine romeno, i controlli sono maniacali e scorrono a rilento.  Finalmente, li superiamo. Oltre la dogana, ad aspettare gli ucraini, ci sono tanti altri volontari. 

C’è Chara, da Atene, arrivata con il suo Love Van, un furgone che porta pasti caldi laddove ce ne è bisogno. Ci sono i ragazzi italiani di Save the dogs, che danno cibo, cure e trasportini per gli animali domestici di chi arriva. «Ci sono cani, gatti e una volta ci è capitato pure un furetto», ci raccontano Martina, Francesca e Andrea. E poi ci sono le signore di Isaccea con i loro sorrisi materni, che smistano gli abiti e ci dicono che ce ne sono troppi e qualcuno ne manda perfino di sporchi. C’è l’ex europarlamentare Sonia Alfano, di ritorno dall’ Ucraina, dove è andata per portare un carico di insulina: «Volevo essere sicura che andasse davvero agli ucraini», mi dice.

GIORNO 3
Isaccea

Il giorno dopo torniamo al porto, gli arrivi continuano, senza sosta. Incontriamo Alessandru, 66 anni, di Odessa. Ha vissuto tanti anni in Italia: «Un Paese meraviglioso, l’unico problema? Le tasse», scherza. Poi si fa serio e ci racconta: «Io sono vecchio, non combatto con le armi ma con l’informazione. Parlo con gli stranieri e con i russi e racconto cosa è la guerra». 

Una ragazza corre verso la dogana. Abbraccia ridendo la madre e la sorella. La loro situazione è complicata: sono per metà russe, per metà ucraine. Hanno paura ad andare a Mosca, dove vive parte della famiglia. Viky è una produttrice televisiva, la sorella Mariana una stilista. Viky mi dice che la cosa peggiore per loro «non è andare via, ma non sapere più chi sei». Mariana aggiunge: «Spero che Putin se ne vada e che Ucraina e Russia possano vivere in pace e amicizia, come era fino a 10 anni fa».
Ed ecco che arriva Alina, 34 anni. È scappata da Nikolaev con i suoi bambini. Ha lasciato tutto, preparato una borsa ed è fuggita. Con lei ci sono le amiche e la suocera, il marito è rimasto a combattere. «Sono orgogliosa di lui, combatte anche per tutte noi», ci dice. 

BUCAREST
Rientriamo a Bucarest. Nella hall dell’hotel, conosciamo Maria, volontaria ucraina. È fuggita da Kiev e ora aiuta le donne a scappare. Ci racconta della voglia di tanti ucraini di combattere, del nazionalismo, ma anche di chi, come lei, è stanca e arrabbiata: «Non capisco perché Zelensky non abbia cercato da subito vie diplomatiche. Dicono tutti che è un eroe, ma per alcuni di noi non lo è. Voi europei non dovete darci armi, ma aiutare nella mediazione per raggiungere la pace». Accanto a lei c’è Svetlana, che la contesta: «I nostri uomini stanno combattendo anche per noi, è grazie a loro e a Zelensky che potremo tornare a casa, vivere in pace». Maria scuote la testa: «Quando la tua casa è distrutta dalle bombe, non hai più un posto dove tornare…».

La notte cala su Bucharest. Il viaggio è finito, si torna in Italia. Con la forte certezza che, più forte della geopolitica, c’è l’umanità. Combattiva, rassegnata, dirompente, come gli occhi di Palina.
 

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