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Guerra Ucraina, l'Italia boicotta la Russia ma Parigi continua a fare affari con Putin

Gianluigi Paragone
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Pecunia non olet, dicevano i latini. Che se ne intendevano di imperi. Oggi diremmo business is business, e forse proprio per questo le sanzioni e i boicottaggi contro Putin restano al palo se c'è da far di conto.

Se in Italia Draghi costringe le imprese a farle valigie e rientrare da Mosca, importanti multinazionali straniere non hanno la minima intenzione di lasciare spazi di mercato e presidi commerciali sono perché lo chiedono Zelensky o Biden o la Von Der Leyen. In Europa Francia e Germania diversi colossi si guardano bene dal prendere una decisione drastica; addirittura c'è chi apertamente si è rifiutato di andare via. Anche a costo di provocare le ire del presidente ucraino che spera attraverso i social di ingaggiare una campagna di boicottaggio puntando l'indice contro i cattivi della globalizzazione.

Nel mirino di Zelensky sono così finiti grandi marchi come le francesi Auchan, Decathlon, Leroy Merlin, Renault e Société Générale. A essere onesti, anche i tedeschi della Metro non hanno spiantato le tende, e ad oggi fanno melina pure grandi realtà come le francesi Accor, Air Liquid e Danone; le americane Colgate-Palmolive, Coty,,Hyatt, Hilton, Johnson&Johnson; le tedesche Basf, Bayer, Henkel; le britanniche Intercontinental Hotels o la GlaxoSmith&Kline.

Insomma business is business e ogni motivo è valido per non mollare la Russia. Per non dire ovviamente di tutti coloro che interagiscono sul mercato del gas. Chi in questi giorni ha avuto a che fare con le piccole imprese italiane da anni connesse alla Russia, si sentirà dire dell'inutilità delle sanzioni al fine della risoluzione del conflitto e del grande buco che rischiano le nostre imprese a vantaggio di competitor disinteressati a lasciare Mosca.

«Sono anni che subiamo la mannaia delle sanzioni - si commenta nel mondo delle pmi - Con la conseguenza che poi ognuno ha dovuto inventarsi corridoi commerciali per non perdere quei mercati. Ora però è diverso, noi piccoli siamo tagliati fuori e nessuno ci ripara, né nelle associazioni di categoria né al governo».

In effetti Mario Draghi e Luigino Di Maio non hanno perso tempo a schierare l'Italia tra i più solerti nella compagna di boicottaggio, senza preoccuparsi se pure gli altri partner europei facessero altrettanto. Così si scopre che tedeschi e francesi fanno melina lasciano le loro unioni industriali libere di scegliere come reagire al piano delle sanzioni. Mi diceva un imprenditore lombardo di lungo corso che «in piena guerra fredda, in anni dove la tensione tra i due blocchi si tagliava a fette (nel decennio precedente ci fu la repressione della rivolta ungherese e nel 68 la Primavera di Praga «risolta» coi carri armati sovietici), la Fiat apriva stabilimenti nell'Unione Sovietica, in accordo con il partito comunista italiano e le sue strutture. La fabbrica torinese, con questa scelta di strategia aziendale, si incuneava non soltanto in un vasto mercato di fascia popolare (segmento dove Fiat primeggiava) ma gettava le basi per una rete relazionale, talvolta assai riservata, in appoggio al governo italiano e agli alleati», (che non sempre videro di buon occhio questa politica aperturista garantita dal più forte partito comunista d'occidente, tanto che la Mirafiori sovietica fu denominata Togliattigrad).

Oggigiorno una apertura del genere non sarebbe ammessa, anzi verrebbe immediatamente giudicata come collaborazionismo con il Nemico, con il Cattivo. E poco importa se gli altri ci fanno affari assieme da anni e anni. 

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