Il commissario svuota tutto
Figliuolo ai saldi di fine mandato: vende milioni di camici, tute e guanti inutilizzabili contro il Covid
Il commissario Francesco Paolo Figliuolo ha i magazzini pieni di materiale anti-Covid non più utilizzabile. Parliamo di 158 milioni di guanti, 12 milioni di tute protettive e mezzo milione di camici. Ma anche copriscarpe protettive, visiere e rotoloni di carta-tessuto. Molti di questi dispositivi di protezione sono stati prodotti in Cina. Per avere un’idea di grandezza basti pensare che gli scataloni occupano 40.000 metri cubi di spazio.
Il generale vede avvicinarsi il 31 marzo, che coincide con la fine dello stato d’emergenza. Per quella data anche il suo incarico in prima linea nella lotta al virus terminerà. Così ha deciso di liberarsi una volta per tutte di tutto questo materiale acquistato nel 2020, quando al suo posto c’era l’ad di Invitalia Domenico Arcuri. Allora eravamo nella prima fase della pandemia, e tutti questi prodotti furono acquistati in deroga alla normativa vigente, tanto che molti "pezzi" sono sprovvisti anche della necessaria certificazione Ue. In pratica, non sono idonei a combattere il Covid. Montagne di guanti, tute e camici da buttare. Eppure, sono rimasti stipati nei magazzini affittati dalla struttura commissariale per tutto questo tempo. Uno spreco nello spreco. Lo scrive chiaramente lo stesso commissario Figliuolo nella determina firmata tre giorni fa, il 10 marzo: "Per lo stoccaggio presso i magazzini dislocati sul territorio nazionale di tali materiali non più impiegabili, si sostiene un onere mensile a carico dell’Amministrazione di circa 1,07 milioni di euro iva inclusa". Significa che nel 2021 sono stati spesi quasi 13 milioni di euro solo per tenerli chiusi in scatola.
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Il generale ha provato anche a rifilare tutto alle popolazioni più bisognose del pianeta, ma senza riuscirci. Scrive, infatti, che "nell’ambito del più ampio progetto delle donazioni a favore di Paesi terzi colpiti in maniera grave della pandemia da Covid-19, nel corso del tempo, i predetti manufatti sono stati oggetto di offerta". Il problema è che nessuno li ha voluti. Anche perché hanno "vita tecnica scaduta" o "certificazioni non idonee". Altri materiali sono stati validati dal Comitato tecnico scientifico, ma "non sono più idonei per la mancata proroga dei termini di cui all’art.5-bis, comma 2, del decreto legge 18 del 2020". L’articolo in questione, infatti, consentiva di utilizzare dispositivi di protezione individuale "analoghi" a quelli contemplati dalla normativa. In pratica, veniva concessa una deroga alle regole vigenti vista la difficoltà di approvvigionamento in quel particolare periodo iniziale della pandemia.
Tra i quasi cento milioni di guanti in nitrile da buttare, spiccano i 78 milioni di pezzi acquistati dalla cinese Dong Tai, che sono sprovvisti della necessaria certificazione. Tra le tute protettive, invece, ci sono i quasi tre milioni di pezzi fabbricati da un’altra azienda cinese, la Nanjing Trust Garment Co. Ltd, e importati in Italia dalla Macron spa. Queste tute avevano ottenuto il parere tecnico favorevole dell’Inail. L’Istituto, nel dare il suo via libera, specificò che si trattava "di una validazione di carattere straordinario, valida per il tempo strettamente necessario finché dura lo stato di emergenza Covid-19, nell’impossibilità di effettuare le procedure ordinarie di controllo degli standard di qualità e sicurezza dei dispositivi in oggetto". Quella che in gergo tecnico si chiama "validazione in deroga".
Al momento, il generale è alla ricerca di eventuali acquirenti. Prima di sobbarcarsi le spese ingenti per smaltire tutti questi dispositivi di protezione inutilizzabili, la struttura commissariale deve provare a piazzarli sul mercato. È per questo motivo che ha pubblicato un "avviso a manifestare interesse" rivolto a tutte quelle imprese che potrebbero essere attratte a comprare camici, guanti e tute per poi riciclarli a fini industriali. Tra le condizioni poste dal commissario, c’è quella di "provvedere a propria cura e spese al prelevamento dei materiali acquisiti". C’è tempo fino al 29 marzo per presentare le offerte. Nel caso in cui il bando vada deserto, il costo dello smaltimento ricadrà sulle casse dello Stato. Quindi, sui cittadini.