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Solo ora capiamo che la guerra non c'entra con la pandemia. Paragone: basta limitazioni ai diritti

Gianluigi Paragone
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Ieri Aldo Grasso sul Corriere invitava a riflettere sulle parole. Ma alla fine l'unica che gli interessava era «dittatura», in riferimento all'espressione «dittatura sanitaria» contro la dittatura di Vladimir Putin, il cattivo della Storia. Mi è sembrato strano che uno studioso della comunicazione, e quindi anche indirettamente delle parole, non avesse speso una parte del ragionamento circa l'(ab)uso della parola guerra e di quelle a essa collegata, sebbene quel glossario fosse stato il punto di riferimento dei momenti più critici della emergenza sanitaria. In quei giorni infatti tutto era una «guerra al virus» e il vaccino era l'arma vincente (anche se poi non lo è stata). Addirittura l'ex sindacalista Giuliano Cazzola invocava Bava Beccaris contro chi non si vaccinava: «Vanno sfamati col piombo». Capita che a qualcuno scivoli il piede sulla frizione quando dal Viminale danno l'ordine di caricare sui portuali a Trieste e sugli studenti colpevoli di resistere al Green Pass e alle storture dello scuola/lavoro. Ora però una guerra c'è davvero, con bombe vere, con carri armati veri, con proiettili veri, con soldati in mimetica veri. E quindi la guerra al virus è diventata un po' meno guerra, anche per televisioni e carta stampata, nelle cui redazioni è partita la caccia all'ospite e all'esperto per i nuovi copioni.

 

 

Nel giro di una settimana il parterre dei Bassetti, dei Galli, dei Pregliasco e compagnia cantante è invecchiato di colpo e per le nuove star della tv - le virostar - rischia di arrivare il tempo delle vacche magre: meno inviti, meno coccole, meno collegamenti. Passando ovviamente dall'agente, perché «da soli non ce la facevamo più a stare dietro ai mille inviti». Brutta vita, insomma, per chi aveva già dovuto modificare la propria versione dell'emergenza pur di restare a galla e andare in tv, passaggio fondamentale per batter cassa fuori dagli studi. Ogni tanto qualcuno mi domanda: ma quanto prendono per andare nelle trasmissioni? La maggior parte di loro non prende nulla (Burioni ha un contratto per le presenze fisse a Che Tempo Che Fa, ma nemmeno al sottoscritto membro della commissione di Vigilanza Rai hanno voluto fornire la cifra: evidentemente alla trasparenza devono essere parecchio allergici in tanti...); i gettoni di presenza li prendono fuori, nelle serate dove appunto c'è un cospicuo rimborso spese e l'acquisto minimo di un numero di copie (difficilmente sotto le cento) è pressoché obbligatorio.

 

 

Ora però che il virus spaventa molto meno, che le spiegazioni delle virostar si fanno ripetitive e soprattutto ora che è scoppiata una guerra vera, la gente vuole sentire altri ospiti, altre voci, altri esperti, altri professoroni. Le terapie intensive non sono un problema, la Omicron se la sono fatta quasi tutti senza particolari conseguenze, i richiami vaccinali non fanno breccia e soprattutto il clima d'odio ha stressato oltre misura: insomma nulla vale la potenza delle immagini di guerra e di sangue che arrivano dalla Ucraina. Il nemico non è più invisibile, anzi ha un nome e un cognome precisi e consente persino di dividersi in pro e contro. Si tratta soltanto di consumare l'ultimo atto della Covid Story: se le piazze si riempiono di pacifisti (quelle si possono organizzare senza avere controlli) e non più di No Green Pass o No Vax, che senso ha continuare con green pass più o meno rafforzati, con obblighi vaccinali che escludono dal lavoro e con altre discriminazioni ormai decisamente scadute? Nessuna, per questo chiediamo al non eletto Mario Draghi e agli eletti col compito di compiere politiche anti sistema, di smontare il cinema e farci tornare alla normalità. Quella vera, quella dove non si limitano i diritti e non si tolgono libertà fondamentali. A maggior ragione se vogliono fare il processo ai Cattivi.

 

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