Parla il figlio di Gabriele Cagliari: "Tangentopoli? Un golpe. Quei pm calpestarono i diritti di molti imputati"
«Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti, sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell'opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta di identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho 67 anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti...Addio mia dolcissima sposa e compagna Bruna, addio per sempre. Addio Stefano, Silvano, Francesco, Lella, Giuliana addio. Addio a tutti. Miei carissimi vi abbraccio tutti insieme, per l'ultima volta. Il vostro sposo, papà, nonno, fratello. Gabriele». Era il 3 luglio 1993 quando Gabriele Cagliari scrisse questa sua lettera, l'ultima, dal carcere di San Vittore. Pochi giorni dopo, il 20 luglio, esattamente dopo aver trascorso 134 giorni di carcerazione preventiva, Cagliari venne ritrovato morto nel bagno della sua cella. Si era ucciso soffocandosi con un sacchetto di plastica legato al collo dalle stringhe delle scarpe, ma prima aveva voluto spiegare quell'ultimo, drammatico, gesto con varie lettere di cui l'ultima indirizzata alla famiglia. Gabriele Cagliari, allora era presidente dell'Eni, e venne arrestato la sera dell'8 marzo di ventinove anni fa su richiesta della procura di Milano, con l'accusa di avere autorizzato il pagamento di tangenti. Stefano Cagliariè il figlio primogenito del presidente dell'Eni ed ha voluto dedicare al padre scomparso un libro «Storia di mio padre», curatrice Costanza Rizzacasa d'Orsogna, Longanesi Editore, per cercare di narrare in modo corretto un periodo comunque oscuro della nostra storia contemporanea.
"Chi lo vuole sabotare". Fonti confermano: il piano contro i referendum di Salvini
Architetto Cagliari quale è stata la molla, secondo lei, che ha spinto suo padre a togliersi la vita?
«Il 15 luglio si tenne l'ultimo interrogatorio sul caso Eni-Sai, in cui mio padre spiegò come si erano svolti i fatti, confermando la versione di Salvatore Ligresti. In quella occasione, secondo il legale di mio padre e del suo assistente, al termine dell'interrogatorio il Pubblico Ministero promise di mandarlo ai domiciliari, in realtà successe una cosa ben diversa».
Cosa?
«Il legale fece la richiesta dei domiciliari ma fu proprio il Pm a darne parere negativo e partire per le vacanze estive. Credo che questo gesto fu la goccia che fece traboccare il vaso. Un gesto, quello del pubblico ministero, che dimostrava ancora una volta come, i basilari diritti umani, venissero sistematicamente calpestati al grido ideologico di fare giustizia».
Come mai successe questo?
«Credo che la piazza spinse i magistrati ad una sorta di delirio di onnipotenza. Mio padre pensava che con Mani Pulite la magistratura stesse facendo un vero e proprio colpo di Stato. Emblematica è una lettera che mio padre scrisse in quei giorni a San Vittore in cui spiega le condizioni di vita in carcere. Queste le sue parole: 'Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro ambiente', così scriveva Gabriele Cagliari. 'La vita, dicevo perché il suo ambiente, per ognuno, è la vita: la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e i loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell'Amministrazione Pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l'altro complice infame della Magistratura che è il sistema carcerario. La convinzione che mi sono fatto è che i Magistrati considerano il carcere nient'altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima. Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni Procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un'analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima. Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere'.
La Borselli fa secco Amato: che caduta di stile nel delegittimare in tv i referendum
Una lettera profondamente attuale. Architetto a quasi trent' anni di distanza dalla morte di suo padre quanto le manca?
«Certamente mi manca in quei ricordi di una vita che ha avuto momenti straordinariamente intensi passati assieme. Mi manca il passato che ho vissuto con lui, le vacanze trascorse insieme ai suoi amici e a Silvano, mio fratello, in barca. Furono momenti di grande intimità».
Mi ha accennato a suo fratello Silvano. Anche lui è scomparso dopo poco tempo.
«Il giorno dopo l'arresto, il 9 marzo del 1993, ci telefonarono da Pechino per dirci che Silvano era ammalato, poi venni a sapere che era stato contagiato dall'Aids. Lo portammo prima in Francia poi in Italia ma da lì a tre anni morì. Papà non seppe mai della malattia di Silvano».
Anche sua moglie Mari morì in quei mesi...
«Mia moglie si era ammalata nel 1992, iniziò le cure chemioterapiche ma mancò quando mio padre era in carcere. La tragedia di mio padre si portò dietro tante ed infinite sofferenze ultima delle quali fu la morte di mia mamma nel 1998. Mia madre quando capì che sarebbe stata un peso a causa dei suoi problemi di salute decise di andarsene».
Davigo e la nemesi dei M5S. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Travaglio