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Che disastro Mps gestita dallo Stato. Il Tesoro sta cercando un partner credibile

Andrea Giacobino
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La grande incompiuta finanziaria del governo di Mario Draghi si chiama Monte dei Paschi di Siena. È la banca il cui 64,2% dal 2017 è nelle mani del Ministero dell’Economia e delle Finanze, allora guidato da Pier Parlo Padoan, quando fu «salvata» dopo anni di perdite da un intervento della mano pubblica costato circa 7 miliardi di euro fra aumento di capitale e rimborso delle obbligazioni subordinate. 

Gli impegni presi allora con l’Europa prevedevano però che entro la fine dello scorso anno la banca più antica del mondo ritornasse in mani private, ma il matrimonio ventilato con Unicredit guidato da Andrea Orcel (e alla cui presidenza c’è proprio Padoan) è sfumato nello scorso autunno. Orcel, infatti, ha chiesto allo stato venditore una «dote» di circa 7 miliardi mentre il governo era disposto ad offrigliene una di «solo» 3 miliardi, portando così il costo finale dell’intervento pubblico a 10 miliardi. Vale la pena ricordare, poi, che a fronte del salasso per portare il controllo del capitale nelle mani pubbliche, la quota dello stato in Mps oggi vale sì e no 800 milioni. Ed è certo che Orcel per vestire i panni del cavaliere bianco abbia chiesto quella dote così consistente perché ha accertato che in pancia all’istituto di Rocca Salimbeni ci sia ancora, nonostante la «pulizia» fatta in questi anni, una massa di credi deteriorati tale da comprometterne la redditività. Senza contare che sì i crediti deteriorati netti sono stati smaltiti in misura notevole (erano al 18,2% del totale nel 2016, ma solo al 2,6% a fine 2020), per essere ceduti però per larga parte ad Amco, un’altra controllata dal Tesoro. Le perdite, cioè, sono state caricate da un’azienda all’altra dello stato.

 

Insomma, un disastro. ll punto è che la banca toscana, la più antica al mondo ancora in attività, è andata peggiorando proprio sotto la gestione dello Stato. I numeri non offrono via di scampo e ci dicono che nel 2016, ultimo anno di gestione privata, l’istituto chiuse con ricavi per 3,8 miliardi. Nell’intero 2020, invece, era scesa a 2,5 miliardi. Ha perso per strada, dunque, 1,3 miliardi, più di un terzo del fatturato. Infatti, il margine d’interesse è passato da 1,78 a 1,05 miliardi, mentre le commissioni nette da 1,8 a 1,35 miliardi. Già queste due voci ci spiegano che Mps oggi sia di gran lunga meno capace di ottenere risultati attraverso l’attività bancaria tipica, che consiste nel prestare denaro e nell’offrire altri servizi alla clientela. Nei primi nove mesi dello scorso anno i ricavi complessivi sono stati di 2,2 miliardi, in lieve crescita del 3% rispetto allo stesso periodo del 2020. E questo spiega perché il titolo Mps in borsa nell’ultimo anno abbia perso quasi il 20% senza contare che a rendere complicata una cessione c’è poi il macigno di varie cause legali che incombono sulla banca per un controvalore di circa 6 miliardi, rischio che nessun compratore si vuole assumere.

 

Nonostante tutto ciò nella conferenza stampa di fine anno Draghi ha ostentato ottimismo sul futuro della banca: «La pandemia - ha detto - ha cambiato molto le regole sugli aiuti di Stato, non solo quelle di bilancio. Non credo dunque che anche sul fronte Mps ci siano difficoltà». Sarà, ma nel frattempo proprio alla fine del 2021 Mps, il cui amministratore delegato è Guido Bastianini, che fu scelto con l’appoggio decisivo dei Cinque Stelle, ha presentato un piano industriale al 2025 che prevede un utile lordo di 700 milioni al 2024 a fronte di molti tagli al personale (che i sindacati hanno stimato in 4.500 uscite) e dell’ennesimo aumento di capitale, questa volta di 2,5 miliardi.

Oggi dopo l’approvazione del nuovo piano il Montepaschi attende la luce verde della Dg Comp. L’authority europea guidata da Margrethe Vestager è infatti chiamata a decidere non solo sulla strategia, ma anche sulla proroga del regime di «precautionary recapitalisation» dopo il flop della privatizzazione. L'intenzione del Tesoro è quella di mantenere la quota almeno per 12-18 mesi, così da puntellare le fragilità dell'istituto e individuare un partner che possa subentrare nel capitale. Il piano servirà proprio a rinegoziare gli accordi presi nel 2017 e a garantire la viability stand alone in questa delicata fase. In una nota diffusa nei giorni scorsi il Monte ha fatto sapere che «allo stato attuale non è ancora possibile ipotizzare alcuna tempistica di completamento dell'iter autorizzativo», indispensabile per l'avvio delle attività propedeutiche all’aumento di capitale previsto dal piano. Fonti finanziarie fanno comunque sapere che Dg Comp si starebbe muovendo per evitare che il prolungamento del regime di nazionalizzazione risulti distorsivo della concorrenza nel mercato bancario. 

Sotto questo punto di vista Dg Comp (che da ormai quattro anni monitora lo stato di salute di Siena con controlli trimestrali affidati a un monitoring trustee indipendente) potrebbe spingere su tre leve nell'ambito del negoziato: riduzione del perimetro con dismissione di asset, abbassamento del cost/income dall'attuale 68,6% in un intorno del 55% e aumento del return on equity in zona 8% (alla fine del primo semestre era al 6,8%). Per quanto riguarda il capitale, dovrà poi essere mantenuto il rispetto dei requisiti minimi fissati dall'autorità di Vigilanza. E a quel punto, forse, potrebbe affacciarsi un altro «cavaliere bianco» (si parla del Crédit Agricole) o addirittura Orcel potrebbe tornare sui suoi passi. Ma per ora il Monte resta nel limbo in cui l’ha portato la mano pubblica, perdendoci un sacco di soldi.

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