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Gli italiani vivono nella paura di non poter essere liberi e di restare prigionieri di quarantene e burocrazia

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Hoara Borselli
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«Viviamo nella paura ed è così che non viviamo». Ho voluto scomodare Buddha perché ravvedo in queste nove parole l'essenza fondamentale di ciò che siamo, o meglio, ciò che la pandemia ci ha fatti diventare. Siamo tutti pazienti, indistintamente malati, impauriti ed ubbidienti a chi, con la litania del «è per il vostro bene», ci somministra giornalmente medicine. Non sono più sciroppi o pastiglie, bensì decreti, restrizioni, obblighi e multe. Ogni settimana la terapia cambia perché l'organismo poi si abitua e non risponde più alle cure, allora i luminari che devono conservare salde le nostre paure, si adoperano affinché non si abbassi mai la guardia, rischiando che possa insinuarsi dentro di noi il letale virus della speranza, pur consci che di Speranza a noi ci spetti solo il cognome del Ministro. Non è un caso se l'Economist ha insignito l'Italia del blasonato riconoscimento di «Paese dell'anno», del resto come siamo riusciti a non far calare l'asticella della paura noi, nessuno. In questi due anni siamo passati dal terrore della malattia, al terrore schiacciante della burocrazia pandemica. Basta guardarci intorno per capire che ormai le persone non temono più il contagio, ma le restrizioni che questo si porta dietro. Assuefatti dalle immagini delle terapie intensive e dalle ambulanze in fila fuori dai Pronto Soccorso, tutto si è dirottato sui divieti, gli obblighi e le quarantene. Un esercizio di paura, figlio di quel caos che ogni nuovo provvedimento mette in campo.

 

 

Una macchina perfetta che alimenta inesorabile quella forma di isteria di cui ne sono state esempio le code fuori dalle farmacie durante le feste natalizie. Milioni di italiani che compostamente hanno sfidato freddo e sacrificato ore delle loro giornate, pur di guadagnarsi il lasciapassare per poter brindare in famiglia o sbocciare a Capodanno con gli amici. Se tu chiedevi loro perché avessero accettato di sottostare a quel rito masochistico, tutti o quasi avrebbero risposto che lo facevano per poter festeggiare in sicurezza. Sicuri di non ammalarsi? No, sicuri di non dover stare a casa. Oggi la malattia per la maggior parte degli italiani non è più vista come minaccia per la salute, bensì l'inizio di quell'infernale labirinto di incognite da cui si resta intrappolati ed è quasi impossibile uscirne con i nervi saldi. Se mi ammalo come faccio? Devo chiudere l'attività? E per quanto? E se sono asintomatico devo farmi tamponi da sola? E se ho sintomi devo stare in vigile attesa o chiamare il medico? Questi sono solo alcuni degli interrogativi che paralizzano gli italiani in quella morsa di terrore burocratico che li porta a cercare di schivare quel virus che li trascinerebbe in quella selva oscura cui difficile uscirne psicologicamente indenni.

 

 

C'è una platea di italiani non vaccinati che sta vedendo restringersi sempre di più le maglie della proprie libertà individuali e non accettando come soluzione il siero, spera di contagiarsi per vie naturali o come ha fatto il motociclista Marco Melandri, cercando il contatto con un positivo. Un po' come quando da piccoli la mamma ci mandava dall'amichetta con la varicella sperando di vederci rientrare a casa portando in dote il trofeo del contagio avvenuto. Oggi l'attesa del risultato di un tampone viene vissuto come un tempo di quindici minuti necessari a scorrere velocemente tutto ciò che avevamo in programma di fare e che saremmo costretti a disdire o posticipare in caso di clausura forzata a casa. Neppure per un secondo, alla maggior parte delle persone balena l'idea di rischiare la vita se dovesse marcarsi la seconda linea sul test. Siamo ormai entrati nella nuova fase che potremmo definire burocraticamente pandemica, dove il vero rischio non è il contagio ma ciò che ne consegue.

 

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