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Morto Colin Powell, l'ex segretario di Stato Usa stroncato dal Covid

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L’ex segretario di Stato degli Stati Uniti Colin Powell è morto per complicazioni da Covid-19 all’età di 84 anni. Powell è stato il primo cittadino di origine afroamericana a ricoprire tale ruolo in diverse amministrazioni repubblicane contribuendo a plasmare la politica estera americana negli ultimi anni del 20esimo secolo e nei primi anni del 21esimo.

«Abbiamo perso un marito, un padre, un nonno e un grande americano straordinari e amorevoli», hanno scritto i familiari su Fb. L’ex segretario di Stato era completamente vaccinato. Powell - che agli esordi della sua lunga carriera aveva prestato anche servizio in Vietnam - era giunto all’apice della popolarità in seguito alla vittoria della coalizione guidata dagli Stati Uniti durante la Guerra del Golfo, e per un certo periodo a metà degli anni ’90, il suo nome era circolato come probabile primo presidente nero nella storia degli States. La sua carriera venne però stata macchiata quando, in qualità di primo segretario di stato di George W. Bush, denunciò l’Iraq come produttore di antrace e di armi biologiche sulla base di prove rivelatesi in seguito false. 

Un’ascesa rapida dal sud del Bronx a Washington, passando dal Vietnam, per toccare il punto più basso a pochi chilometri da dove era cresciuto: nel Palazzo di Vetro lungo l’Hudson, nella parte est di New York. Colin Powell, morto a 84 anni per i postumi del Covid, verrà ricordato come un uomo di Stato, un generale di carisma, il primo segretario di Stato afroamericano, ma anche per aver dato volto a uno dei discorsi più controversi mai fatti alle Nazioni Unite: quello per giustificare una guerra in Iraq. Figlio di immigrati giamaicani, cresciuto tra Harlem e sud del Bronx, Powell si era sentito un soldato dentro, forse come modo per uscire dall’insicurezza quotidiana che la vita nei sobborghi più poveri di New York aveva alimentato in lui. Dopo gli studi al City College, era entrato nel corpo d’addestramento dei riservisti e poi ufficialmente, alla fine degli anni ’50, nell’esercito.

Nel ’62 Powell era stato tra le migliaia di soldati afroamericani spediti in Vietnam, dove resterà un anno per farvi ritorno cinque anni dopo, tra il ’68 e il ’69, nel periodo in cui la «guerra che nessuno voleva» si era trasformata in un tunnel mortale per migliaia di americani. Di ritorno alla vita civile, Powell aveva maturato la scelta di portare avanti il suo rigore con altri mezzi: la politica. Studiò alla George Washington University e nel ’72, a 35 anni, entrò come stagista alla Casa Bianca, per diventare, in seguito, assistente di Frank Carlucci, l’allora vice direttore dell’Ufficio Budget dell’amministrazione federale. Quello fu il momento in cui prese corpo la seconda parte della ricca biografia dell’ex soldato: passò a una serie di incarichi all’interno del Pentagono fino a occupare il ruolo di primo assistente del segretario alla Difesa Caspar Weinberger. Nell’87, a 50 anni, entrò a far parte dello staff del Consiglio di sicurezza nazionale, di cui poi prese la guida su scelta del presidente Ronald Reagan.

Appena due anni dopo, Powell assunse il comando delle forze armate come generale a quattro stelle. Un altro presidente repubblicano, George Bush, gli affidò il comando dello stato maggiore dell’esercito. Quelli furono gli anni in cui Powell svolse un ruolo chiave nell’invasione di Panama, nell’89, e nelle operazioni nel Golfo Persico ’Desert Shield’ e ’Desert Storm’, all’inizio degli anni ’90, prima di ritirarsi dall’esercito nel ’93 a soli 56 anni. Molti pensarono che l’ex generale si fosse preparato a scendere in prima persona nella corsa presidenziale come candidato repubblicano, ipotesi mai confermata e tantomeno concretizzata. 

Powell, però, colse il momento per ritagliarsi una dimensione più politica, che lo porterà a intervenire su molti temi, scelta che lo porterà al suo più grande risultato: la nomina, primo afroamericano della storia, a segretario di Stato sotto la presidenza di George W. Bush. Ma fu nel momento di massima ascesa, che Powell incappò in quello che può essere considerato il suo atto più controverso: il discorso alle Nazioni Unite del 5 febbraio 2003 per convincere l’Assemblea generale della necessità di invadere l’Iraq. Un intervento che si rivelerà pieno di falsità, altro che prove ufficialmente «sostenute dalle mie fonti», aveva detto. «Non sono opinioni - aveva assicurato con tono fermo - ma ciò che vi daremo saranno fatti e conclusioni basate su un solido lavoro di intelligence». L’Iraq, disse, «aveva ripreso il programma nucleare». La storia smaschererà la messinscena. Le informazioni si rivelarono costruite a tavolino. 

Powell, che nel 2004 venne costretto a dimettersi, ammetterà, in futuro, di essersi pentito. «Quel discorso rappresenta per me un atto doloroso - disse - che resterà agli atti della mia vita». Come, in effetti, è stato fino all’ultimo. 

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