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Riformare il catasto significa tasse. E in Europa sono messi peggio di noi

Riccardo Mazzoni
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La riforma del catasto prefigura una stangata inevitabile sulle proprietà immobiliari già pesantemente tartassate, con l’obiettivo finale di fare cassa, oppure – come sostiene la sinistra – è solo un atto dovuto di equità sociale per cancellare le sperequazioni tra centri e periferie e tra nord e sud, con uno spostamento di valore dai ricchi ai poveri?

 

Un politico di lungo corso come l’ex parlamentare Maurizio Bianconi ieri ha scritto sul suo blog parole definitive sulla questione facendo questo ragionamento: formalmente è vero che il governo Draghi non aumenterà le tasse sulla casa, si è limitato a mettere in produzione l’esplosivo, poi sarà sicuramente un altro governo a fare bum, ma sarà un atto dovuto e reso possibile e ineludibile dalle scelte di Draghi. Basta il titolo del provvedimento – “delega fiscale” e non “riordino fondiario” - a dimostrare che la rivisitazione del catasto non è fatta solo per una questione di trasparenza, perché la tassa sulla casa, le tasse di registro sugli atti, le valutazioni di bilancio delle società, l’Isee, tutto il meccanismo impositivo insomma, è fondato proprio sul principio di rendita catastale. Mettendo le mani sul catasto dunque si mette le mani su tutti questi tributi che “automaticamente e inevitabilmente aumenteranno”.

 

Queste considerazioni spiegano plasticamente il motivo per cui tutti i precedenti tentativi di mettere le mani sugli estimi catastali sono finite inesorabilmente nel nulla, per il terrore diffuso di nefaste conseguenze elettorali. L’ultima volta ci aveva provato il governo rossogiallo appena insediato, nell’ottobre del 2019, inserendo la riforma nella Nadef, salvo poi ritirarla in tempo quasi reale: "Non ci sarà un disegno di legge di revisione del catasto collegato alla manovra, lo escludo", si affrettò a precisare l’allora viceministro Misiani a Porta a Porta. Un dejavu, visto che lo stesso refrain era già andato in scena nel 2014, quando sulla base della legge delega fiscale avrebbe dovuto essere adottato un decreto legislativo per la revisione delle rendite con l’allineamento del valore catastale e di mercato degli immobili attraverso una stima fondata sui metri quadri anziché sui vani.

 

Nel 2017 quella stessa delega era stata poi ripresa con un disegno di legge rimasto però, anch’esso, lettera morta, e tornando indietro nel tempo, analoghi tentativi erano sempre naufragati. Anche quando la sinistra governava da sola, per cui è abbastanza paradossale che l’ex potentissimo ministro Visco ora sentenzi che i cinque anni fissati da Draghi sono troppi, e che la riforma “si può fare in un anno e mezzo”. La storia dice tutt’altro: in Italia l’ultima revisione del catasto per i fabbricati risale infatti al 1990, peraltro limitata all’aggiornamento monetario delle tariffe d’estimo senza toccare la classificazione delle unità immobiliari in base alle caratteristiche effettive degli edifici, e gli altri Paesi europei sono perfino più indietro di noi. In Germania, ad esempio, i valori degli immobili sono fermi al 1964 per i Lander dell’Ovest e al 1935 per quelli dell’Est, e in Francia agli anni ’70, a dimostrazione di come sia complesso intervenire organicamente. Soprattutto ora che il settore immobiliare avrebbe bisogno di ripartire senza salti nel buio, dovendo fare ancora i conti con i valori in discesa, e non di una miccia accesa sotto il mercato, anche se lunga cinque anni, che prefigura il fantasma di un incremento esponenziale del prelievo fiscale. Una stangata che l’Unione Europea ci chiede da anni ma che, anche se solo annunciata, rischia di dare la mazzata finale a un settore trainante per l’economia.

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