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Diffamazione, condannato per WhatsApp

Pina Sereni
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Cade anche l’ultimo muro virtuale: da ora è possibile finire sotto processo, accusati di avere diffamato una persona, ed essere sanzionati penalmente – come ha stabilito la Cassazione – per una frase pubblicata sul proprio «stato» di WhatsApp. Così si ripropone lo schema che già è ampiamente diffuso sui social network più noti e più utilizzati, come Facebook, Twitter, Instagram: basta condividere uno scritto o una foto, con contenuti esageratamente critici o addirittura offensivi, e rendere quel messaggio visibile a numerose persone, per compiere nel mondo virtuale di internet il reato di diffamazione. Per il Codice Penale – articolo 595, per la precisione – va condannato «chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione», e la sanzione può arrivare a dodici mesi di reclusione o a una multa da mille e trentadue euro.

Sino ad ora era considerata scontata la comunicazione con più persone sui social network. Pubblicare un messaggio su Facebook, ad esempio, consente di raggiungere almeno i propri «amici», ma è possibile anche modificare determinate impostazioni e fare in modo che quello stesso messaggio sia visibile a tutte le persone iscritte al social network. A nessuno però era passato per la testa di correre un identico rischio utilizzando il proprio «stato» su WhatsApp, cioè quello spazio che viene utilizzato magari per condividere un pensiero, una riflessione o una foto, e che è visibile dai propri contatti, ossia, in pratica, tutti quelli presenti sulla propria rubrica telefonica, che viene automaticamente recepita da WhatsApp. Ai giudici della Cassazione, invece, è toccato il compito di prendere in esame il caso – il primo in Italia, per quanto se ne sappia – di diffamazione tramite «stato» di WhatsApp. A finire sotto processo è stato un uomo. Quest’ultimo ha commesso l’errore – frutto, in realtà, di una scelta voluta e consapevole, secondo i magistrati – di pubblicare una frase offensiva all’indirizzo di una donna sul proprio «stato» di WhatsApp, rendendola così leggibile a tutti i suoi contatti, inclusa la destinataria.

Inevitabile, ma allo stesso tempo clamoroso, lo strascico giudiziario, perché la donna non si è limitata a lamentarsi con l’autore della frase offensiva, ma ha pensato bene di denunciarlo alle forze dell’ordine. E così l’uomo si è ritrovato sotto processo con l’accusa di diffamazione. Per i giudici di primo e di secondo grado non ci sono stati dubbi: condanna inevitabile.

E così la singolare vicenda, cominciata nella provincia di Caltanissetta, è approdata in Cassazione. E nel contesto del Palazzaccio i giudici hanno inchiodato l’uomo alle sue responsabilità, respingendo la tesi difensiva secondo cui non vi era prova che la frase incriminata «fosse realmente visibile da tutti i contatti» presenti sulla rubrica del suo smartphone. Su quest’ultimo punto, in particolare, i magistrati hanno invece osservato che «l’uomo non ha limitato la visione» della frase offensiva rivolta alla donna, e ha fatto ciò consapevolmente, perché se avesse voluto rivolgersi direttamente alla persona offesa, avrebbe avuto più senso mandarle un messaggio personale dai contenuti offensivi.
 

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