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Da simbolo del pool al ring. L'"Amara" fine del pm Greco stupito della fuga di notizie

Luigi Bisignani
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Caro direttore, dal pool al ring. Francesco Cossiga, il Presidente della Repubblica che voleva mandare al Csm persino i carabinieri, diceva: «La riforma della giustizia si farà solo quando i magistrati si arresteranno tra loro e allora si potrà anche stabilire per legge una visita psichiatrica per diventare una toga». Pare che ci stiamo arrivando. Non si arrestano tra loro solo perché «cane non mangia cane», ma si indagano a vicenda in maniera compulsiva e ritorsiva. Procure contro procure, in un perenne derby con capitani-Pm che infiammano le tifoserie tra giustizialisti e garantisti. Quanto ai test psicologici - che in Germania incidono eccome nel percorso di carriera di un magistrato - ci si arriverà presto, anche a seguito del dibattito accesosi dopo l’aberrante decisione di sottoporre a perizia psichiatrica Silvio Berlusconi. E, come sempre quando la mattanza diventa più sanguinosa, a farne le spese è uno di quei magistrati che, sia pur ideologicamente targato a sinistra, ha sempre messo al primo posto il rispetto verso i suoi «clienti»: il procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Figlio di ammiraglio, casa e barca a vela, sua grande passione, a La Maddalena in Sardegna, dove spesso ospitava i colleghi, tanto che in certi giorni la Piazza Rossa (meravigliosa coincidenza!) dell’isola sembrava un corridoio del Palazzo di Giustizia.

 

 

Oggi veste in grigio scuro ma durante Mani Pulite la sua uniforme era un blazer blu, pantaloni chino beige e camicia celeste: in altre parole, uno yacht-man a Palazzo. Se l’allora procuratore capo Francesco Saverio Borrelli per prepararsi all’assalto contro Fininvest e il Cavaliere, anziché esaltarsi dal protagonismo manettaro dei vari Di Pietro, Davigo e Colombo, avesse lasciato Greco a indagare davvero sui bilanci delle società, la storia di Mani Pulite e di molte altre inchieste a catena sarebbero state differenti. Il giorno che Raul Gardini si sparò fu uno dei più drammatici di quegli anni. Il patron del gruppo Ferruzzi aveva tentato invano di andare a deporre da uomo libero, ma la Procura di Milano voleva interrogarlo solo dopo averlo rinchiuso a San Vittore. Serviva uno scalpo da esibire al popolo e quello di Gardini, «il Pirata», era l’ideale. Anche perché in questo modo si distoglieva l’attenzione montante su Agnelli, De Benedetti e soprattutto Pci e Cooperative rosse. Greco aveva gli occhi gonfi di lacrime, di dolore ma forse anche di rabbia: senza l’arresto e quel suicidio avrebbe ottenuto risultati ben diversi su tanti filoni aperti all’insegna del suo mantra, «meno carcere e più entrate per l’erario, meno burocrazia e più leggi moderne». Si bloccò invece così il Paese, in un ricatto permanente tra politica, grandi e piccoli gruppi industriali e magistratura. Con Pm che ai codici preferivano farsi eleggere Parlamento e i talk-show televisivi.

 

 

Probabilmente, nella sua visione dell’economia, Greco si è lasciato influenzare dal professor Guido Rossi, in nome di un esasperato libero mercato che ha finito per permettere, soprattutto ai francesi, di far man bassa nel nostro sistema bancario e industriale. Tutto ciò a beneficio delle leggendarie parcelle del professore, il quale fece di tutto perché Greco rimanesse a presidiare quel prezioso avamposto in Procura anziché diventare, ad esempio, un abile e innovativo Presidente della Consob. Così le pubbliche accuse in tutta Italia hanno esorbitato dal proprio ruolo inseguendo teoremi anziché singoli reati. La pacatezza, la signorilità e la curiosità di Greco si colgono in molti episodi di vita ordinaria in quel Palazzo di Giustizia che nessuno più di lui conosce. Ha iniziato il suo slalom investigativo nel lungo corridoio dove ci sono gli uffici dei Pm e le panche che hanno visto sedere illustri imputati. Alle estremità di quel corridoio, i due bracci più corti: in fondo a destra c’è lo studio del procuratore capo, che al tempo fu di Borrelli, in fondo a sinistra c’era quello di Antonio Di Pietro. Quando nel 1996 si aprì il primo processo contro Berlusconi per tangenti alla Guardia di Finanza, tra i dirigenti delle società del Cavaliere chiamati a testimoniare c’era anche Urbano Cairo il quale, durante una pausa, volle andare a curiosare attorno ai corridoi della Procura dove incontrò casualmente proprio Greco. «Posso avere il piacere di stringerle la mano?» chiese ammiccante al magistrato. Greco gli rispose sorridendo e, senza mollare la mano che stringeva, se lo portò dentro la sua stanza. Indimenticabile lo sguardo di Cairo rivolto ai cronisti, un attimo prima di essere trascinato nell’ufficio del Pm. Un altro siparietto risale all’interrogatorio di Carlo Sama per Enimont, quando sempre Greco ricevette una telefonata inattesa del solito Guido Rossi, appena diventato presidente della Montedison, che gli chiedeva di sbloccare i crediti Iva della Ferruzzi, a dimostrazione di come il Gruppo fosse ormai eterodiretto dalla Procura.

Tuttavia, c’è da rimanere un po’ basiti quando, nell’intervista-testamento a Il Corriere della Sera, Greco quasi si stupisce della fuga di notizie sugli scoppiettanti e fantasiosi verbali dell’avvocato Amara da parte di Davigo, lo stesso inquisitore che oggi, da indagato, si guarda bene dal ripetere che «non esistono innocenti ma solo colpevoli da scoprire». Come se il Procuratore capo di Milano, all’improvviso avesse dimenticato che la fuga di notizie fu utilizzata spesso - come purtroppo ancora è - come bomba a orologeria da molte procure. Senza forse ricordare che ha concesso quest’ultima chiacchierata prima della pensione a Milena Gabanelli, musa ispiratrice di Report, trasmissione cult di Rai3, Vangelo settimanale dei Pm e dei manettari. Sic. In nome del popolo italiano.

 

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